lunedì 15 novembre 2010

Mobilità ed equità sociale: il ruolo del trasporto pubblico

La mobilità è una componente essenziale della vita dei cittadini, percepita sempre di più come un diritto essenziale poiché amplia le possibilità e le occasioni di crescita economica e culturale.
Ogni giorno sono 15 milioni coloro che utilizzano bus, metrò, tram e treni. Il Paese è però ancora fortemente tarato sull’uso del veicolo privato, che resta il mezzo di trasporto preferito nonostante i costi elevati (circa il quadruplo rispetto ai mezzi pubblici) e la sempre decrescente efficacia in termini di costi/benefici (costi vivi di esercizio, aumento della congestione, difficoltà di parcheggio, incidentalità, ecc.).
Recenti ricerche dimostrano del resto come una fetta consistente di automobilisti utilizzerebbe i mezzi pubblici se rispondessero alle loro esigenze. Molti sono anche coloro che non hanno alternative all’auto perché abitano in zone di nuova urbanizzazione dove non si è pensato, a tempo debito, di pianificare la mobilità in modo adeguato.
Le politiche inerenti la mobilità devono tuttavia tenere conto di tutte le ricadute che le scelte fatte in questo campo avranno sui cittadini, con l’obiettivo di un impiego ottimale delle risorse economiche a disposizione.
La trasformazione degli attuali modi di produzione e di consumo verso modelli che traguardano una società più equa richiede la trasparenza dei loro costi indotti sulla collettività, e in particolare di quelli esterni.
I costi esterni ricadono sulla collettività e non sono sostenuti da chi li ha generati.
Ad esempio, i costi sociali dovuti a incidenti (5000 morti/anno in Italia), invalidità, malattie da inquinamento (8000 morti/anno in Italia, fonte OMS), sono quantificati nel 2% di PIL all’anno, e questa somma, se risparmiata sui capitoli di spesa sanitaria, sarebbe più che sufficiente a dotare il Paese di mezzi di trasporto collettivi sicuri ed efficienti.
Purtroppo, invece che curare le cause si preferisce spesso mitigare gli effetti negativi provocati dall’attuale modello di mobilità (fondato sull’uso dell’auto privata), ottenendo scarsi risultati.
Indubbiamente c’è un problema culturale, poiché da noi negli anni si è veicolata ed imposta, tramite una pubblicità martellante, una falsa idea di libertà e modernità dello stile di vita basato sull’auto.
Questo modello artificialmente imposto dal marketing a partire dagli anni ormai lontani del boom economico, sta tuttavia sempre di più mostrando i suoi limiti e prova ne sono le dosi sempre più massicce di pubblicità per la vendita di auto che ci vengono quotidianamente somministrate, a fronte di un ormai strutturale calo delle vendite (-18,89% a ottobre in Italia, il calo più forte da 12 anni a oggi).
Comincia tuttavia a prendere piede l’idea che uno stile di vita desiderabile non comporti automaticamente il possesso di auto sempre più grandi e potenti, che hanno a disposizione strade libere solo negli spot, quanto piuttosto l’adozione di quei sistemi di trasporto che soddisfano le nostre necessità nel più breve tempo possibile e con il minor costo possibile per l’ambiente e la salute, oltre che per le nostre tasche.
Adottare uno stile di vita alternativo a quello automobile-centrico significa ad esempio accompagnare a piedi i figli a scuola, e aver l’occasione di parlare con loro senza essere distratti dalla guida, o perdere meno tempo in coda a patto di avere a disposizione forme di spostamento rapido come il metrò e le tramvie veloci, di poter usare in sicurezza la bici e occupare gli spazi pubblici occupati dall’auto per il gioco e la vita sociale.
La mobilità del futuro sarà sempre più fatta di soluzioni flessibili, tagliate sulle esigenze del momento, che evitino l’inu­tile consumo di territorio di un sistema basato su auto di proprietà che rimangono ferme in parcheggio per il 90% del tempo.
A Milano le auto occupano uno spazio pari a 2.250 campi da calcio. Siamo secondi solo agli USA per n° di auto, ossia 600 ogni mille abitanti.
A sorpresa però una delle aree urbane con il più basso tasso di mo­torizzazione del mondo è Manhattan: 13 auto ogni 100 abitanti. Come a dire che a redditi elevati non necessariamente corrisponde un livello elevato di motorizzazione, anzi. Il Sindaco di New York Bloomberg spesso va al lavoro in metropolitana.
La sfida consiste nell’ impostare una nuova politica della mobilità smitizzando l’uso del mezzo privato quale simbolo di libertà, dato che specie nelle grandi concentrazioni urbane l’eccessivo utilizzo dell’auto porta e porterà sempre di più alla paralisi della mobilità stessa.
Occorre passare dalla monocultura dell’auto alla mul­ti modalità, usando con intelligenza un mix di mezzi messo a nostra disposizione, ma non necessariamente di proprietà. Il car-sharing che si sta diffondendo con successo a Genova ne è un esempio efficace.
Per fare questo occorre avere il coraggio di andare contro i luoghi comuni e i modelli cristallizzati su comportamenti che hanno ormai fatto il loro tempo per chiedere alla politica di compiere delle scelte davvero innovative, capaci di delineare un modello di sviluppo diverso e migliore, questo, sì, moderno e proiettato verso un futuro sostenibile e in grado di aprire una fase di reale e consistente sviluppo economico.
Il PD dovrebbe io credo impegnarsi con forza e perseguire tali obiettivi con coraggio e con determinazione, non temendo di sfidare vecchi luoghi comuni per non scontentare questa o quella categoria.
Una scelta chiara sarebbe, ad esempio, dire che le corsie gialle per gli autobus sono necessarie perché aumentando la velocità commerciale dei mezzi si riducono i costi e quindi si riduce la necessità di ricorrere ai tagli del servizio. Un’altra scelta chiara sarebbe, ad esempio, dire che si possono fare corsie per pedoni e biciclette invece che posteggi per auto. Messaggi chiari, in grado di far capire alla gente cosa il PD voglia fare di concreto.
Così come molte volte è accaduto, l’iniziale diffidenza verso il cambiamento si può trasformare in condivisione e apprezzamento se le proposte sono fondate sull’analisi attenta della realtà e sono quindi realizzate con coerenza ed efficacia, portando tangibili miglioramenti nella vita delle persone.

A Varese, durante l’ultima Assemblea Nazionale, è stato discusso e approvato sulla mobilità un documento importante, con proposte chiare sulle quali dovremmo, io credo, chiamare gli Amministratori Locali ad impegnarsi da subito:
· Dare agli Enti Locali le risorse necessarie per impostare una seria politica della mobilità;
· Finanziare il rinnovo dei parco mezzi per garantire più affidabilità, confort e inquinare meno.
· Investire sulla rete e sulla tecnologia per far diventare concreta l’Alta Capacità, in modo da aumentare la frequenza dei treni e da garantire un servizio migliore, usando al meglio le tracce che verranno lasciate libere dall’AV.
· Favorire l’ingresso di operatori privati italiani e stranieri e le iniziative di partnership o di aggregazione tra operatori sia ferroviari che automobilistici.
· Ampliare il territorio di competenza su cui erogare il servizio integrato di TPL per migliorare le economie di scala delle Aziende ed avere, sempre nell’ambito della concorrenza per il mercato, una maggiore efficienza ed economicità.
· Estendere i sistemi tariffari integrati regionali, che permettono ai viaggiatori di usare i diversi mezzi di trasporto della regione con lo stesso titolo di viaggio.
· Favorire il coinvolgimento degli utenti nell’organizzazione del servizio di TPL.

A livello regionale ritengo importante inoltre che venga al più presto delineato il Piano Regionale dei Trasporti e prenda il via l’Agenzia Regionale quale organismo di indirizzo e coordinamento per tutte le realtà operanti nel campo della mobilità.

su questi punti chiedo al Partito Democratico della Liguria un serio e concreto impegno progettuale e programmatico.

domenica 10 ottobre 2010

Idee e progetti per allearsi con l'Italia: Assemblea Nazionale del Partito Democratico

Si è conclusa anche questa Assemblea Nazionale di Varese, un luogo simbolico per dire che il PD sa parlare anche al Nord, perchè è un partito che sa parlare a tutto il Paese, un Paese che non mira a dividere, ma ad unire attorno ad un progetto complessivo che pone il bene comune al centro dell'azione politica.

L'Italia non merita questo governo che l'ha illusa con false promesse, che l'ha spaventata con falsi allarmi o che, al contario, l'ha falsamente rassicurata e ne ha definitivamente bloccato quelle energie che, a parole, diceva di voler liberare. Questo governo ha saputo liberare solo gli istinti peggiori delle cricche, dei faccendieri, degli sfruttatori di lavoro nero: è ora di dire basta e mettere al centro chi, onestamente e rispettando le leggi, lotta ogni giorno con la crisi economica e lavora, studia, fa ricerca. Solo aiutando questa che è la parte migliore della nostra società potremo davvero, tutti insieme, ripartire con un rinnovato patto per l'Italia e sconfiggere, smascherandola, la visione populistica del berlusconismo e del leghismo.

Per questo è necessario chiamare a raccolta tutti coloro che vogliono davvero cambiare pagina, e vogliono per cominciare ridare ai cittadini la possibilità di scegliere direttamente i loro rappresentanti in parlamento. Cambiare la legge elettorale è la priorità in questo momento, ed è giusto allearsi con chi condivide questa priorità. Come ha detto Bersani, occorre "un’alleanza democratica per tutelare le regole del gioco." Quanto al "dopo", si comincia ora a lavorare per unire le forze di centrosinistra che però abbiano "attitudine di governo": non si rifà l'Unione, chiarisce il Segretario.

A Varese abbiamo parlato di questo ma soprattutto di cosa vogliamo fare nei mesi futuri in tema di scuola, trasporto pubblico, immigrazione, economia, fisco, enti locali, quali idee vogliamo portare avanti per parlare all'Italia di futuro. Perchè, come dice la nostra Presidente, Rosy Bindi, "adesso tocca a noi".

mercoledì 16 giugno 2010

Manovra: altro che 1000 treni nuovi, si profilano tagli massicci al trasporto ferroviario pendolare

Non solo il Governo ha respinto la proposta di legge per finanziare 1000 treni nuovi, così come aveva proposto la Commissione Trasporti della Camera: ora cala la scure sul trasporto pubblico e sugli attuali livelli di servizio, e si profilano per i prossimi anni tagli massicci che sarebbero indubbiamente un colpo mortale al trasporto pubblico. Le "grandi opere" però non si discutono: si cancellano treni in circolazione ma si continua a finanziare il Ponte sullo Stretto, così come altre strade e autostrade. Sempre più i costi di trasporto saranno messi a carico dei singoli cittadini, pesando in misura sempre maggiore sulle già esangui finanze familiari.

Legambiente: "A rischio un treno su due per i pendolari.
Saltano i contratti di servizio in tutte le Regioni".


Per Legambiente, la protesta delle Regioni contro i tagli per i treni pendolari contenuti nella manovra del Governo non solo è comprensibile, ma addirittura insufficiente a far comprendere l'effetto che le decurtazioni avrebbero per i cittadini italiani che ogni giorno prendono il treno per ragioni di lavoro o di studio. L'associazione ambientalista ha analizzato i numeri della manovra che riguardano i pendolari che viaggiano in treno, e questi dati sono semplicemente scioccanti: rispetto all'anno in corso, il taglio complessivo delle risorse per il servizio ferroviario è del 53%, quello a Trenitalia del 67%.

Infatti, il taglio in materia di "Servizi ferroviari di interesse regionale e locale in concessione", previsto all'allegato 1 della manovra, è pari a 1.223 milioni di euro per l'anno 2011, di cui 1.181 a Trenitalia e 42 agli altri concessionari. Se si considera che per questa voce del bilancio dello Stato, che garantisce i treni in circolazione nelle Regioni, la cifra nel 2010 era pari a 2.287 milioni di cui 1.748 milioni a Trenitalia e 539 agli altri concessionari, si comprende come quella che si profila è una vera e propria ecatombe del servizio ferroviario pendolare nel nostro Paese.

"Ma Tremonti e Matteoli hanno idea dell'effetto che la manovra provocherà a partire dal 2011 nelle città italiane? - chiede Edoardo Zanchini, responsabile trasporti di Legambiente. Il Governo deve spiegare ai due milioni e 700mila italiani che ogni giorno prendono i treni per motivi di lavoro o di studio quali soluzioni alternative hanno in mente per loro. Con meno di metà delle risorse rispetto a quest'anno come si può pensare di far funzionare il servizio?".

Legambiente lancia un allarme rivolto a tutti i pendolari d'Italia per far sentire forte la protesta contro una decisione che determinerebbe degli effetti sociali e ambientali drammatici, perché meno treni significa più auto in circolazione, città più congestionate e inquinate, ancora più disagi per i pendolari che già troppi ne soffrono su treni spesso vecchi e affollati.

Inoltre, nella manovra questi tagli sono definiti con chiarezza per le singole voci per il 2011, ma è già previsto che continueranno per il 2012 e 2013. Per i pendolari è un'autentica beffa, perché a partire da quest'anno si dovevano cominciare a vedere i miglioramenti, tanto attesi nelle città e nelle Regioni italiane, che i nuovi Contratti di servizio con 6 anni di durata dovevano garantire. Ma con i tagli rischiano di essere cancellati tutti gli accordi già firmati. E Legambiente evidenzia come altri tagli siano spalmati su diverse voci che riguardano il servizio di Trasporto Pubblico Locale, per un totale di ulteriori 217 milioni di Euro, mentre nessuna risorsa è tolta ai finanziamenti della Legge Obiettivo. "Una scelta semplicemente assurda – aggiunge Zanchini -. Si cancellano i treni in circolazione nelle città mentre si continua a finanziare il Ponte sullo Stretto di Messina, ma anche nuove autostrade e strade. Non sono certo questi gli investimenti che servono a portare l'Italia fuori dalla crisi, tantomeno quando si tagliano i servizi essenziali".

Il Governatore del Piemonte Cota si è detto rassicurato da Tremonti, che garantirebbe attenzione alle Regioni virtuose, invitandole a coprire gli eventuali buchi. Per Legambiente le "rassicurazioni" di Tremonti sono un modo di mischiare le carte: con questi numeri a disposizione semplicemente sarà impossibile, anche in Piemonte, garantire il servizio attuale, figuriamoci i miglioramenti che queste si sono impegnate a realizzare con i contratti di 6 anni firmati nel 2010 quasi ovunque con Trenitalia.

I contratti di servizio in vigore e i tagli del DDL dal 2011
tabella 1

Nella tabella è riportato l'ammontare del contratto di servizio per le Regioni italiane con Trenitalia nel 2010 e quelle a disposizione nel 2011 secondo la manovra del Governo. I tagli alle Regioni sono calcolati secondo i parametri di proporzionalità stabiliti con la Legge di trasferimento dei poteri in materia di trasporto ferroviario alle Regioni (la cosiddetta Legge Bassanini, la Legge 59 del 1997).


Gli stanziamenti aggiuntivi delle Regioni per il Contratto di servizio
tabella 2
Nella tabella sono indicate le cifre che le Regioni hanno stanziato come risorse aggiuntive rispetto al Contratto di Servizio 2010. Come è evidente nessun intervento da parte delle Regioni potrà recuperare i tagli. Non è quindi un caso che le Regioni abbiano definito in maniera unanime il Decreto "incostituzionale perché vengono tolti i soldi ma non le funzioni e questo contraddice quanto disposto dalla Corte Costituzionale".

martedì 18 maggio 2010

Le parole del PD: Lavoro, valore fondante della nostra democrazia

Alcune riflessioni sul tema del lavoro, in vista dell'Assemblea Nazionale del Partito Democratico del 21-22 maggio.

L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. Così inizia il documento più importante dell’Italia Repubblicana, la nostra Costituzione.

Queste parole costituiscono la pietra angolare su cui poggia una visione di società che pone il lavoro al centro della costruzione di una repubblica democratica.

Il lavoro non è inteso qui solo come strumento dell’arricchimento individuale, ma come base ontologica dello Stato stesso e del benessere collettivo.

La Costituzione ne riconosce, ne tutela e ne indirizza il valore, ed in particolare:
· il valore economico (il lavoro inteso come mezzo di soddisfazione dei bisogni umani) negli articoli. da 35 a 40;
· il valore sociale (il lavoro inteso come ambito nel quale contribuire al bene comune e ottenere un riconoscimento sociale) nell’articolo 4, che sancisce il diritto/dovere al lavoro;
· il valore personale (inteso come spazio per la valorizzazione del talento individuale e per la realizzazione personale) ancora nell’articolo 4 che tutela le scelte del lavoratore e la sua elevazione formativa e professionale.

E’ attraverso il lavoro che si può concretizzare il patto sociale tra Stato e cittadini, e il benessere sociale diventa così una diretta conseguenza dell’interazione tra la buona amministrazione e lo sviluppo economico del Paese intero.

Il lavoro nella Costituzione è visto anche come strumento di realizzazione della personalità, e questo implica come sia dovuto ad ogni cittadino l’avere garantite pari opportunità di realizzazione in base alle proprie capacità e non grazie a posizioni sociali acquisite senza merito, costituenti perciò un privilegio.

Per questo il lavoro si configura come un diritto di tutti i cittadini, un diritto da rendere effettivo promuovendone le condizioni. Ma il lavoro è anche un dovere: il dovere che ogni cittadino ha di «svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società» (articolo 4).

Il lavoro riveste quindi una duplice valenza, individuale e collettiva, ed è il rapporto tra queste due dimensioni che caratterizza la società: il singolo realizza la propria dimensione civica anche attraverso il lavoro, che diventa mezzo di emancipazione e di promozione sociale resa possibile dalla rimozione di quei vincoli (di censo, di appartenenza sociale, di casta) che negano a tutti i cittadini pari opportunità.

Oggi assistiamo ad una perdita del senso etico del lavoro che non è più fattore di identità e socializzazione, ma un tempo carico di difficoltà e incertezze dove spesso ci si sente soli nell’affrontare i cambiamenti sempre più rapidi e convulsi imposti dal sistema economico detto “globalizzazione”.

Il problema è quindi ritrovare quel senso e riscoprire il valore dell’impegno affinché il lavoro sia di nuovo un luogo primario di crescita per le persone, una dimensione positiva che produce ricchezza individuale e sociale per costruire una nuova partecipazione e promuovere una vera esperienza di cittadinanza attiva.

Occorre capire in che modo restituire al lavoro, e ai lavoratori, quella centralità che la finanza globalizzata ha sottratto loro relegandoli, almeno in apparenza, a ruoli sempre più marginali, dando la scena alla speculazione borsistica piuttosto che ai risultati delle politiche industriali.

La delocalizzazione delle produzioni “di base” ha certo giocato un ruolo fondamentale in questa perdita di peso dell’economia da lavoro, tanto che oggi si parla della Cina come della nuova “fabbrica del mondo”.

Occorre oggi più che mai ripensare il ruolo socio-economico dell’Italia e dell’Europa, e occorre farlo avendo in mente il tipo di società in cui vogliamo vivere. Questo presuppone scelte politiche chiare e azioni efficaci in grado di realizzarle.

Non stupisce che il tema del lavoro sia “la” parola che si impone su tutte le altre, e giustamente Bersani afferma che “il lavoro è un tema collettivo mentre negli anni passati era diventato un fatto domestico".

E’ precisamente da questa osservazione che occorre partire nell’azione da sviluppare per “legare questioni sociali e democrazia”, come dice ancora il Segretario, e ricostruire la trama del tessuto sociale ormai così sfilacciata e resa consunta da anni di retorica liberista e individualista.

Il Censis, nell’ultimo rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese, registra “Il ciclo calante dell’individualismo fai da te”, mentre si fa strada una modalità nuova di intervento comune fra soggetti pubblici, privati e singoli individui, che rimanda a un modello comunitario in cui abbiano più spazio soluzioni personalizzate e il più possibile immediate.

In questa nuova prospettiva il PD ha grandi spazi di fronte a sé che vanno percorsi e interpretati per dare risposte concrete alle domande di futuro della società.


Non abbassare la guardia sui diritti dei lavoratori
I recenti attacchi all’art. 18 dimostrano come la destra continui a perseguire una accentuata deregulation del mercato del lavoro. Dopo l’eliminazione delle misure sulle dimissioni in bianco, le deroghe alle norme e l’indebolimento delle sanzioni sulla sicurezza sul lavoro, la rimozione dei limiti ai contratti a termine, il re-inserimento dei contratti a chiamata, la cancellazione della responsabilità in solido dell’appaltatore con il sub-appaltatore per arginare il lavoro nero, si è tentato nuovamente di smantellare le tutele contro gli ingiusti licenziamenti.
Usando una efficace espressione di Stefano Fassina, “per il ministro Sacconi, i diritti e la retribuzione dei lavoratori sono la variabile compensativa delle inefficienze di sistema e delle rendite corporative accuratamente difese.
Nonostante i tentativi di retorica riformista, è un disegno che guarda al passato più lontano per un mercato del lavoro selvaggio, senza diritti, diametralmente opposto a quanto servirebbe per spingere le nostre attività produttive verso la competizione di qualità.”

Il contratto di lavoro: diritti per tutti, precarietà per nessuno
Indubbiamente l’eccessiva segmentazione del mercato di lavoro, che vede una pletora di tipologie contrattuali, costituisce una anomalia che ha creato e crea disparità di trattamento del tutto ingiustificate tra lavoratori che pure esercitano mansioni analoghe. Quelle che dovevano essere forme di lavoro “flessibile”, giustificate da esigenze puramente temporali e stagionali, si sono trasformate in forme di precariato stabile, grazie alla reiterazione dei contratti che si succedono per mesi e per anni senza mai trasformarsi in contratti stabili. Il risultato è l’anomala crescita dei contratti “atipici” che hanno fortemente distorto il mercato del lavoro italiano e indebolito il sistema previdenziale.

Appare chiaro che è il rapporto di lavoro a tempo indeterminato che deve rappresentare, così come anche stabilito dalla stessa Unione europea, la “normale” forma di impiego. Perciò bisogna ridurre, contestualmente, le forme di lavoro flessibile tornando ai principi introdotti dal governo Prodi con il Protocollo del luglio 2007: cancellazione dello staff leasing, delimitazione del ricorso al lavoro a chiamata e specifiche causali per i contratti a termine.

Il lavoro flessibile dovrebbe inoltre costare molto più del lavoro stabile e il lavoro che da flessibile diventa stabile dovrebbe poter contare su forti incentivi, a differenza di quanto avviene oggi: in Italia costa più il lavoro “stabile” di quello precario, e la flessibilità la pagano i lavoratori, non le imprese che ne usufruiscono.

Quest’ultimo aspetto, in particolare, potrebbe essere la chiave di volta per disincentivare le aziende ad assumere con forme precarie quando più che alla flessibilità puntano al non dover stabilizzare i lavoratori. Così come una prestazione “unitaria” è pagata più di una prestazione “stabile” (si pensi al costo di un abbonamento rispetto al costo di un singolo acquisto) così dev’essere per la flessibilità, che va adeguatamente retribuita compensando il lavoratore con un pagamento orario pari almeno al doppio o al triplo di quello corrisposto al lavoratore “stabile”.

Questo meccanismo, più che un abbassamento verso il basso delle tutele, potrebbe contribuire a diminuire il ricorso delle aziende a forme di lavoro precario.

giovedì 13 maggio 2010

PROVINCIA: “TRENITALIA NON CHIUDA LA BIGLIETTERIA DI PEGLI” CHIEDE IL CONSIGLIO

Con un’espressione di opinioni di Stefano Volpara (Pd) con risposta dell’assessora Anna Dagnino e interventi anche di Sonia Zarino (Pd) e Paolo Bianchini (Pdl).

da Pro.No. Agenzia di Stampa della Provincia di Genova
Genova, 12 - La chiusura della biglietteria della stazione ferroviaria di Pegli “sarebbe l’ennesimo schiaffo ai cittadini e ai pendolari” ha detto Stefano Volpara (Pd) che ha portato il tema al Consiglio Provinciale con un’espressione di opinioni alla quale ha risposto l’assessora Anna Dagnino concludendo il dibattito in cui sono intervenuti anche Sonia Zarino (Pd) e Paolo Bianchini (Pdl).

Volpara ha chiesto di sapere se “sia vera la notizia dell’imminente chiusura della biglietteria di Pegli, si parla della fine di maggio, con una dismissione da parte di Trenitalia che rappresenterebbe un altro segnale di totale abbandono dei cittadini e dell’arroganza di chi gestisce un bene pubblico come il trasporto ferroviario interessandosi evidentemente solo delle linee veloci e non dei viaggiatori pendolari e se l’ultimo accordo tra Regione e Trenitalia prevedeva che non ci fosse nessuna chiusura di biglietterie perché i patti sottoscritti non vengono rispettati?”

Zarino ha ribadito “la preoccupazione sul territorio per questa notizia collegata a politiche di massimizzazione dei profitti e riduzione dei servizi di Trenitalia” e ha poi proposto “facciamo come in Veneto, dove delle piccole stazioni ferroviaria si occupano gli enti locali”.

Per Bianchini “mentre ci occupiamo della solita battaglia per cercare di difendere l’esistente, altrove si vivono esperienze di forte sviluppo dalle quali siamo tagliati fuori, come le nuove linee ferroviarie di un’impresa privata che proporrà da settembre servizi di altissimo livello tra Milano e Torino.”

L’assessora Dagnino scriverà “immediatamente all’assessore regionale Vesco e a Trenitalia perché resti aperta la stazione di Pegli, dopo le dismissioni purtroppo già avvenute a Prà, Voltri e Cogoleto. La Provincia inoltre contribuisce già a tenere aperte altre stazioni ferroviarie, come a Lavagna con un contributo al Comune per il punto informativo turistico gestito insieme alla biglietteria e lo stesso facciamo con la Pro Loco di Bogliasco.

sabato 24 aprile 2010

RESISTENZA: DALLA PROVINCIA LA CARTA DEI PERCORSI PER LA LIBERTÀ

Realizzata dall’assessorato al Turismo con l’Anpi provinciale per riscoprire, seguendo i passi e i sentieri della Resistenza, la storia e le testimonianze di chi ha combattuto e si è sacrificato per la libertà nella VI Zona Operativa Partigiana.

Genova, 21 - Una carta di tutti i luoghi dove gli uomini della Resistenza lottarono per la riconquista della libertà e della democrazia e di tutte le testimonianze - lapidi, cippi, steli, monumenti, sacrari, cappelle - degli eccidi, fucilazioni, rastrellamenti, deportazioni, torture e devastazioni nazifasciste sul territorio, tra i passi e i sentieri dove i partigiani in azione e le loro staffette che portavano informazioni, cibo e acqua, avanzavano, spesso di notte, anche con la neve e a stomaco vuoto, attanagliati dal freddo, dalla fame e dalla paura degli agguati, sospinti però dai valori e dagli ideali che hanno alimentato la nostra Costituzione.

E’ la nuova carta dei Percorsi della Libertà realizzata dall’assessorato al Turismo della Provincia di Genova con l’Anpi provinciale “per far scoprire agli studenti, all’associazionismo, ai gruppi e alle famiglie – dice l’assessora Anna Dagnino - il territorio della nostra Provincia, medaglia d’oro al merito civile per il valore e i sacrifici delle sue popolazioni nel sostegno alla lotta per la liberta, da un punto di vista inedito con itinerari che ricordano alcuni degli episodi più significativi della Resistenza, nei luoghi d’azione della VI Zona Operativa Partigiana, i cui primi nuclei nella provincia di Genova si costituirono tra l’autunno e l’inverno 1943-44 sopra Voltri, nelle località di Fò e Àze mortu, al casone della Vagge nell’entroterra di Lavagna e al casale di Costadena a Favale di Malvaro e altri si costituirono tra alessandrino, pavese e piacentino al Bric dei Gorrei, ai laghi della Lavagnina, a Dernice o al monte Porale.”

Una carta che approfondisce anche la memoria della Resistenza a Genova, nelle vallate e sulle montagne e ricostruisce l’organizzazione della VI Zona, con le sue Divisioni, come la Cichero con la Brigata Jori in azione in tutta l’area dell’Antola (dove nacque la Repubblica partigiana di Torriglia, primo esempio italiano di democrazia partecipata dopo vent’anni di feroce dittatura) Lavagnola e Alta Val Trebbia, la 57^ Brigata Garibaldi in Val d’Aveto e Val di Ceno sui monti Penna e Tomarlo, la Brigata di manovra Caio, la brigata Giustizia e Libertà Matteotti-Val Bisagno, la Brigata Buranello al Tobbio, le Brigate Oreste e Arzani tra Savignone, Ronco Scrivia e Casella la Coduri nell’entroterra di Sestri Levante, Lavagna e Chiavari, Borzonasca, la Fontanabuona, i passi della Scoglina e della Forcella, la Berto in Val d’Aveto con la Caio o le Brigate volanti Severino e Balilla, come le Sap di montagna o le tante brigate Sap genovesi.

A questi uomini che insieme a tutta la popolazione che li sosteneva subirono innumerevoli eccidi, rastrellamenti, deportazioni e torture, il 25 aprile 1945, unico caso in Europa, un intero corpo d’Armata tedesco consegnò le armi, arrendendosi a Genova al CLN presieduto dall’operaio Remo Scappini. Per organizzare visite lungo gli itinerari della Resistenza segnalati dalla nuova carta della Provincia si possono contattare anche il sito web, l’indirizzo di posta elettronica o il telefono dell’Anpi (www.anpigenova.itanpige@alice.it tel. 010541422) e, per materiali di approfondimento il sito dell’Istituto storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea (www.istitutoresistenza-ge.it).

sabato 17 aprile 2010

Comune per Comune, le emissioni di gas-serra in vista degli obiettivi di Kyoto

Quali sono i settori più inquinanti nella nostra realtà? Quali le emissioni “in capo” a ciascuno degli abitanti dei 67 Comuni della provincia?

Nel corso del convegno “Da Genova a Kyoto, obiettivo 20-20-20” tenutosi nel salone consiliare di palazzo Doria Spinola è stato presentato l’inventario delle emissioni di gas serra del territorio della provincia.

Uno strumento in grado di fornire un quadro conoscitivo generale dello stato delle emissioni di anidride carbonica del nostro territorio e di tutti i comuni che ricadono in esso, per valutare in maniera obiettiva il nostro contributo a questo problema globale ma anche l’efficacia delle azioni messe in atto localmente per combattere il cambiamento climatico.

L’inventario è stato certificato da RINA rispetto alla norma UNI ISO 14064, proprio perché costituisce una fonte “ufficiale” per valutare lo stato dell’arte e l’impatto di tutte le azioni messe in atto per ridurre le emissioni. Genova è la seconda provincia in Italia, dopo Siena, a dotarsi di questo strumento.

Da un punto di vista tecnico l’inventario è finalizzato a quantificare le emissioni di anidride carbonica (CO2) causate dall’attività umana, e dovute in particolare ai consumi finali delle fonti energetiche, ed è stato calcolato in riferimento all’anno 2005 (il punto di riferimento del c.d. pacchetto clima dell’UE).I dati contenuti nell’inventario ci raccontano una realtà locale molto particolare: le emissioni totali di CO2 totali della provincia di Genova sono pari a 5.863.147 tonnellate di CO2; il dato assume una rilevanza particolare se si considera che la quantità di CO2 emessa in atmosfera è pari a circa 10 volte la quantità di rifiuti solidi urbani prodotti nello stesso territorio.

Le emissioni pro capite - benché inferiori rispetto alla situazione media italiana ed europea - sono comunque rilevanti: 6,6 t/anno in provincia, 7,6 in Italia e 7,5 in Europa.

Il settore a cui si devono le maggiori emissioni di CO2 è quello del civile (che include sostanzialmente le abitazioni, gli uffici ecc.) che contribuisce per il 45% del totale delle emissioni.

Le emissioni restanti sono suddivise quasi in parti uguali tra industria (28%) e servizi (26%, sostanzialmente costituito dai trasporti).

“L’inventario è stato predisposto in modo da poter essere utilizzato in relazione alle politiche della provincia di Genova e delle altre amministrazioni locali nella lotta al cambiamento climatico attraverso la riduzione delle emissioni di CO2 – afferma Alessandro Repetto, presidente della provincia di Genova – In particolare l’inventario verrà utilizzato per sostenere fattivamente i Comuni che hanno aderito al patto dei sindaci, il progetto dell'Unione Europea che coinvolge le amministrazioni locali nel raggiungimento degli obiettivi del “20-20-20”, iniziativa di cui la Provincia di Genova è struttura di supporto”.

“Il progetto che la Provincia presenta oggi è un traguardo importante per la sostenibilità del territorio. La fotografia puntuale delle emissioni di CO2 prodotte, ottenuta attraverso la compilazione dell’inventario, costituisce la base per determinare le attività necessarie a minimizzare l’impatto ambientale comune per comune” afferma Ugo Salerno, amministratore delegato del RINA “questo strumento permetterà inoltre di fissare obiettivi di miglioramento a medio termine in linea con quanto previsto dal protocollo di Kyoto”.

LE EMISSIONI DEI COMUNI DELLA PROVINCIA
Emissioni di CO2 per Comune, in t/anno
  • Arenzano 89.972
  • Mezzanego 4.409
  • Avegno 9.103
  • Mignanego 30.106
  • Bargagli 13.426
  • Moconesi 15.185
  • Bogliasco 24.023
  • Moneglia 29.412
  • Borzonasca 8.483
  • Montebruno 6.442
  • Busalla 63.199
  • Montoggio 14.304
  • Camogli 31.003
  • Ne 12.293
  • Campo Ligure 36.036
  • Neirone 4.804
  • Campomorone 29.910
  • Orero 3.529
  • Carasco 49.629
  • Pieve Ligure 16.334
  • Casarza Ligure 65.011
  • Portofino 5.285
  • Casella 19.894
  • Propata 1.342
  • Castiglione Chiavarese 10.426
  • Rapallo 201.996
  • Ceranesi 16.051
  • Recco 58.721
  • Chiavari 145.855
  • Rezzoaglio 13.641
  • Cicagna 11.462
  • Ronco Scrivia 52.550
  • Cogoleto 69.209
  • Rondanina 269
  • Cogorno 17.950
  • Rossiglione 31.442
  • Coreglia Ligure 1.165
  • Rovegno 8.821
  • Crocefieschi 2.314
  • S.Colombano Certenoli 14.880
  • Davagna 10.021
  • Santa Margherita Ligure 60.548
  • Fascia 1.285
  • Santo Stefano d’Aveto 14.760
  • Favale di Malvaro 1.253
  • Sant’Olcese 24.314
  • Fontanigorda 1.470
  • Savignone 16.296
  • Genova 3.996.727
  • Serra Riccò 54.042
  • Gorreto 1.054
  • Sestri Levante 131.047
  • Isola del Cantone 27.030
  • Sori 27.994
  • Lavagna 76.359
  • Torriglia 24.205
  • Leivi 8.207
  • Tribogna 4.519
  • Lorsica 1.548
  • Uscio 8.924
  • Lumarzo 11.984
  • Valbrevenna 2.992
  • Masone 42.026
  • Vobbia 2.397
  • Mele 41.310
  • Zoagli 28.051
  • Totale Provincia 5.863.147

domenica 11 aprile 2010

Quando le regole servono per discriminare i più deboli

Vorrei partire da alcuni recenti episodi per svolgere una breve riflessione sul tema delle regole e di come a volte la loro strumentalizzazione ne stravolga il senso trasformandole da strumenti di giustizia nel loro esatto contrario.

Negli ultimi tempi si va diffondendo tra i sindaci leghisti la moda di escludere dalla mensa scolastica i bimbi i cui genitori non pagano la retta mensile.

Pagare la retta della mensa scolastica dei figli fa parte dei doveri di un cittadino responsabile, così come si deve pagare il biglietto del treno o la tassa sulla spazzatura. Tutto vero, le regole sono importanti, anzi fondamentali per organizzare la convivenza civile. Questo pensava Socrate, per il quale violare le leggi equivaleva a distruggere le regole della convivenza umana.

Le leggi però non sono concepite per discriminare, ma per mettere tutti sullo stesso piano di diritti e di doveri. Non pagare la mensa scolastica dei figli perché si spendono i soldi in vacanze e in macchine nuove, ad esempio, non è lo stesso che non pagare perché non si hanno soldi sufficienti e si è magari senza lavoro.

Sarebbe quindi utile verificare, prima di tutto, il motivo dei mancati pagamenti, agendo sempre per tutelare il diritto di minori che, non dimentichiamolo, sono i primi a subire le conseguenze di questa discriminazione, tanto più odiosa perché adombra motivi di stampo chiaramente razzista.

Analizzando infatti la nazionalità delle famiglie colpite dal provvedimento si scopre che in grande maggioranza non sono italiane, e allora appare chiaro il reale scopo dell’iniziativa, che con estremo cinismo mira ad ottenere in realtà alcuni risultati, tra i quali a prevalere non è certo quello della contribuzione economica alla mensa scolastica:

1. si ottiene il consenso dell’opinione pubblica filo-leghista seguace della nuova (aberrante) ideologia che tende a limitare la sfera dei diritti ai soli cittadini italiani, in contrasto o, più facilmente, ignorando totalmente ogni riferimento alla Carta dei Diritti dell’Uomo e alla nostra Carta Costituzionale;

2. si punta l’attenzione dell’opinione pubblica su una mancanza (senza approfondire i motivi) ingigantendone negativamente la portata allo scopo di dare una immagine negativa di chi viene escluso;

3. l’enfasi appare così sproporzionata che l’esclusione sembra dover avvenire non solo dalla mensa scolastica, ma dalla stessa società cittadina, delle famiglie “inadempienti”;

4. si pongono le basi per fare terra bruciata attorno alle famiglie i cui genitori, spesso impiegati in lavori al nero, o sottopagati, in questa fase economica di crisi non servono più alle stesse condizioni, o meglio servono ma se si accontentano ancora di meno, se sono disposti a lavorare più ore, con meno sicurezza, ecc.;

5. accentuando il conflitto tra poveri si creano le condizioni per ottenere mano d’opera (italiana e straniera) ancora più a basso prezzo;

6. si facilitano fenomeni di espulsione di stranieri che, consapevoli della loro importanza economica per quei territori, iniziano a rivendicare i loro diritti di lavoratori: si potrebbe parlare di tante Rosarno più “soft” dove ai bastoni e alla folla urlante si sostituiscono fenomeni striscianti ma non meno efficaci di espulsione, in attesa dell’arrivo di nuovi stranieri, magari clandestini, più “addomesticabili” e sicuramente più ricattabili rispetto ai colleghi ormai troppo “pretenziosi”.


Sarebbe interessante capire se altrettanto decisamente i sindaci hanno perseguito l’applicazione delle leggi sul lavoro nero e sullo sfruttamento di mano d’opera a basso costo che caratterizza tanta parte della nostra economia, in tutte le regioni, da nord a sud.

Rispettare le regole conviene sempre a tutti, o almeno in tutti coloro che credono che la legge non debba tutelare i diritti dei più forti a discapito di quelli più deboli. Usare le leggi per discriminare è però la stortura peggiore del patto sociale che lega i cittadini, una torsione del diritto che evoca il periodo più buio del secolo scorso. Non riconoscere la china pericolosa che alcuni amministratori e politicanti in genere stanno imboccando, usando le paure della gente per cavalcarle a fini di ricerca del consenso elettorale, potrebbe essere l’errore più grande da parte di tutti coloro che si riconoscono in un sistema di regole in grado di difendere la democrazia e lo Stato di diritto, quindi tutti noi.

venerdì 9 aprile 2010

Immigrati: sfatare i miti dell’ideologia leghista

Alcuni punti per visualizzare il tema dell'immigrazione, che da troppo tempo è diventato un feticcio strumentalizzato dalla destra. Anche la sinistra, va detto, ha spesso affrontato la cosa in modo ideologico, senza scendere nel merito dell'analisi concreta dei problemi, e questo ha permesso all'ideologia contrapposta della destra di guadagnare terreno.

  1. L’immigrazione usata come mito negativo e valvola di sfogo circa le paure dovute a crisi economica e sociale;

  2. E’ uno schema vecchio ma sempre efficace scaricare i problemi e le paure su capri espiatori, specie se sono soggetti deboli;

  3. Non dobbiamo tuttavia sottovalutare l’immediatezza e la facile presa del rozzo ma chiaro messaggio leghista sulla popolazione, che in preda alla crisi economica e alla mancanza di prospettive certe per il futuro si aggrappa alle facili ricette proposte dalla Lega;

  4. Gli immigrati costituiscono un capro espiatorio ideale che dispensano tutti dal cercare le vere cause della crisi in atto, causata in buona parte dal peso eccessivo che la finanza ha acquisito rispetto alla ricchezza prodotta dal lavoro e dallo spostamento delle attività produttive a basso valore aggiunto nei paesi emergenti;

  5. Dobbiamo battere questa vera e propria ideologia sul suo stesso terreno, quello della concretezza delle analisi e delle proposte;

  6. Dobbiamo usare anche noi un linguaggio semplice e chiaro, ma per veicolare messaggi in grado di spiegare la realtà delle cose e proporre le nostre alternative dimostrando di saper affrontare i problemi relativi alla crisi economica in modo più efficace;

  7. Non dobbiamo aver paura di dire che l’immigrazione non è dannosa, e che non ruba lavoro, se la si sa gestire secondo regole ben precise, che vanno a vantaggio di tutti noi e a svantaggio di coloro che, sfruttando il lavoro nero, inquinano il mercato del lavoro e rendono tutti i lavoratori più deboli e ricattabili;

  8. Il trend demografico è, a detta dei maggiori esperti, particolarmente negativo per l’Italia, tanto che nei prossimi anni i nuovi nati italiani non riusciranno ad invertirlo, e questo contando anche i nati dalle famiglie degli immigrati;

  9. Inoltre l’invecchiamento della popolazione renderà sempre più difficile mantenere in equilibrio lo stato sociale, e verranno messe a rischio le conquiste basilari come la sanità per tutti, il sistema pensionistico, l’assistenza agli anziani;

  10. non ci saranno abbastanza giovani che lavorano regolarmente e pagano tasse e contributi tali da assicurare lo stato sociale così come oggi lo conosciamo;

  11. Massimo Livi Bacci, uno dei maggiori esperti di demografia e senatore del PD, fa notare che gli immigrati regolarmente iscritti all'Inps costano al sistema previdenziale meno degli italiani e cominceranno a ricevere benefici solo tra venti-trent'anni. In altra parole, attualmente danno più di quel che ricevono, anche in ragione della giovane età che richiede un ricorso minore alle cure mediche che gravano moltissimo sulle risorse regionali;

  12. ecco alcuni motivi facilmente comprensibili per i quali dobbiamo auspicare che vi siano immigrati che vengono in Italia e che vi lavorino essendo messi in regola;

  13. certo questo presuppone anche che vi siano politiche in grado di risollevare il paese dalla crisi economica, cosa che attualmente non sta avvenendo;

  14. resta così molto più semplice scaricare i problemi sugli immigrati, ignorando volutamente che essi potrebbero invece contribuire a risolverli;

  15. i lavoratori immigrati, sfruttati e ricattati grazie alle leggi attuali, sono così obbligati ad accettare di lavorare in nero, a volte praticamente in schiavitù sotto pena di denuncia se clandestini. Questa situazione fa sì che, non per colpa loro, si crei una condizione di concorrenza sleale nei confronti dei cittadini regolari, poiché difficilmente un imprenditore disonesto assumerà un cittadino regolare, con tutti gli oneri connessi, se può servirsi di una mano d’opera facilmente ricattabile e a prezzi così bassi. Tale comportamento penalizza anche gli imprenditori onesti, nei confronti dei quali realizza ancora una concorrenza sleale.

  16. Questa situazione penalizza così sia i lavoratori sia gli imprenditori onesti, ecco quindi sfatato il mito proposto da Lega e centro-destra in genere sul tema dell’immigrazione

giovedì 8 aprile 2010

PRESENTAZIONE DELL’INVENTARIO DELLE EMISSIONI DI GAS SERRA DEL TERRITORIO PROVINCIALE

I gas serra sono riconosciuti tra i fattori maggiormente responsabili dei cambiamenti climatici della terra. Il primo passo per combatterne gli effetti dannosi sull'ambiente e sull'uomo è conoscerne la portata, territorio per territorio, e iniziare a mettere in atto opportune contromisure. La Provincia di Genova si è posta l'obiettivo di fare il quadro della situazione ed ha predisposto l'inventario delle emissioni di gas serra del suo territorio, in vista del raggiungimento degli obiettivi di Kyoto. Il 13 aprile tale documento verrà presentato al pubblico, segnando un nuovo impulso alla politica di contenimento dei gas serra nella nostra provincia.

  • Quanta anidride carbonica producono le attività del territorio della provincia?
  • Quali sono i settori più inquinanti?
  • Quali le emissioni pro capite in ciascuno dei 67 Comuni della provincia?
  • Quali le strategie di riduzione messe in atto dalla Provincia di Genova?

PROVINCIA DI GENOVA e RINA

sono lieti di invitarLa a

DA GENOVA A KYOTO, OBIETTIVO 20-20-20:
PRESENTAZIONE DELL’INVENTARIO DELLE EMISSIONI DI GAS SERRA DEL TERRITORIO PROVINCIALE


uno strumento certificato da RINA - il secondo a livello nazionale - che fornisce un quadro conoscitivo dello stato delle emissioni di CO2 del territorio provinciale e di ciascuno dei Comuni, indispensabile per raggiungere anche in provincia di Genova gli obiettivi del “20-20-20”.

martedì 13 aprile 2010 - ore 15,30

Sala del Consiglio Provinciale
Palazzo Doria Spinola
ingresso da L.go Eros Lanfranco


Nel corso dell’evento si svolgerà la cerimonia di consegna da parte del Dott. Roberto Cavanna (Direttore Divisione Certificazione e Servizi RINA) dell’attestato di certificazione dell’Inventario a Provincia di Genova.

Partecipano:
Alessandro Repetto, Presidente della Provincia di Genova
Sebastiano Sciortino, Assessore provinciale alle Risorse Ambientali
Renata Briano, Assessora provinciale Agenda 21
Laura Severino, Responsabile Sezione Servizi Cambiamenti Climatici RINA
Cecilia Brescianini, Dirigente Servizio Energia Provincia di Genova
---
Informazioni
Provincia di Genova – Assessorato Ambiente, Paola Bello
010 5499 548 - bello.p@provincia.genova.it
Fondazione Muvita – Tatiana Parodi
010 910001 – tatiana.parodi@muvita.it

giovedì 1 aprile 2010

Tabloid, per essere informati sull'attività della Provincia

PROGRAMMA TABLOID DELLA PROVINCIA DI GENOVA

GIORNI E ORARI DI MESSA IN ONDA SETTIMANALE COMUNICATI
DALLE EMITTENTI TELEVISIVE

ENTELLA TV
  • venerdì h.20 e 23 (con varie repliche nella programmazione settimanale)

PRIMOCANALE

  • domenica h.20.30,replica lunedì h.8


PRIMOCANALE SPORT

  • domenica h. 20,30 (o comunque nella fascia 20.30-21)

STV

  • venerdì e sabato h 20 - replica 22,15

TELECITY

  • venerdì h 13

TELEGENOVA

  • sabato h.12.15 – replica 23.45

TELEMASONE

  • martedì h. 21

TELENORD

  • venerdì h 18,45

TELEPACE

  • venerdì h. 20,15 – 23.45;
  • sabato h.7

TELETURCHINO

  • venerdì 19,30 - 22,30
  • sabato 12,30- 19,15

martedì 16 marzo 2010

PERCHÉ L'ITALIA HA BISOGNO DI WOMENOMICS

Daniela Del Boca 16.03.2010

Tradizionalmente l'auspicio di una maggiore integrazione delle donne nel mondo del lavoro si fonda su principi di equità. Ora alcuni saggi sostengono che la valorizzazione delle donne risponde anche a criteri di efficienza economica. Un approccio particolarmente interessante per l'Italia, dove la partecipazione femminile è assai scarsa, le donne difficilmente arrivano ai vertici di aziende e istituzioni e anche la fertilità è bassa. Politiche e interventi che sostengano le scelte di lavoro e di famiglia possono far bene anche al nostro Pil.


Nell’ultima settimana sono usciti due libri dal titolo molto simile: Rivoluzione Womenomics e Womenomics. (1)Di che cosa si tratta?

DONNE ED ECONOMIA
La womenomics è stata introdotta da Kathy Matsui, analista di Goldman Sachs, e ripresa dall’Economist per definire la tesi che motiva l’esigenza di una maggior integrazione delle donne nell’economia non in base solo aprincipi di equità, ma anche in base a principi di efficienza economica.

Fino a qualche anno fa, la maggior parte degli interventi a favore di una maggiore integrazione delle donne nel mondo del lavoro si appellava ai principi di equità. Integrare e valorizzare le donne andava fatto perché era giusto. Ora, con questo e altri saggi e con interventi recenti che ne condividono l’approccio, si cambia il punto di vista. (2)Una maggiore integrazione e valorizzazione delle donne non risponde solo a principi di equità, ma risponde anche a criteri di efficienza economica.

Lo studio di Matsui si concentrava soprattutto sull’economia giapponese, da tempo in declino e caratterizzata da una partecipazione delle donne al lavoro e da una loro presenza nei ruoli direttivi tra le più basse fra i paesi sviluppati. Il Giappone è molto simile all’Italia. In ambedue i paesi troviamo insieme alla scarsa partecipazione femminile al lavoro, una bassa natalità e un forte ristagno economico. L’Italia è, in Europa, tra i paesi con i risultati peggiori in termini di differenziali di genere, in particolare con riferimento a lavoro e politica. Questo evidenzierebbe, specialmente per il nostro paese, un potenziale di crescita che un maggiore e migliore impiego delle capacità femminili consentirebbe di mettere a frutto. Chiudere il gap tra presenza maschile e femminile nel mondo del lavoro contribuirebbe anche ad alleviare il problema pressante della sostenibilità delle pensioni: l’aumento del numero degli occupati fra le persone in età lavorativa, infatti, ridurrebbe il cosiddetto “rapporto di dipendenza”, ossia quello fra pensionati e lavoratori.

IL CASO ITALIA
Un approccio di questo tipo è particolarmente importante per l’Italia, soprattutto in una fase in cui la posizione delle donne sembra peggiorare invece di migliorare. Secondo i dati Istat 2009, non solo il tasso di partecipazione femminile fermo nell’ultimo decennio al 46 per cento è in lieve diminuzione, ma anche il tasso di disoccupazione scende, soprattutto nelle regioni del Sud, un segnale di scoraggiamento e rinuncia. Il Gender Gap Index 2009 vede l’Italia al settantaduesimo posto, in caduta rispetto alle posizioni degli anni precedenti. Tra le donne, l’incidenza del precariato è cresciuta ed è oggi di più del 20 per cento, il doppio dei maschi. I tassi di natalità restano bassissimi e in lieve discesa negli ultimi due anni, mentre la povertà è in crescita tra le famiglie monoreddito: oggi i monoreddito sono il 72 per cento del quintile più basso e il 10 per cento del quintile più alto. Infine, le donne italiane sono meno rappresentate politicamente e meno rappresentate ai vertici delle istituzioni e delle carriere rispetto ad altri paesi. Secondo le statistiche della Commissione europea, il nostro paese è ventinovesimo (su trentatre censiti) per numero di donne presenti nei consigli d’amministrazione delle società quotate in borsa.

La composizione dei consigli d’amministrazione delle società del Mib30 mostra che su 466 cariche consiliari, soltanto undici sono ricoperte da donne. Eppure, anche in Italia le donne mostrano in vario modo il loro desiderio di investire nel lavoro. Come nella maggior parte dei paesi sviluppati, i tassi di istruzione femminili sono più alti di quelli maschili, le ragazze escono con voti migliori e arrivano ai titoli di studio in un tempo più breve. Escono anche prima dalla famiglia d’origine: almeno due-tre anni in media prima dei coetanei maschi. Se a metà degli anni Novanta le donne italiane intorno ai trent’anni che avevano già formato una unione di coppia erano circa il 65 per cento, nel 2009 quel valore è sceso a un terzo, uno dei più bassi d’Europa, mentre l’età media alla nascita ha superato 30 anni, una delle più alte d’Europa. Tutto ciò è segno dell’impegno e del desiderio delle donne di partecipare in modo attivo e continuativo al mercato del lavoro, ma anche del caro prezzo che stanno pagando. Perché allora le imprese non cercano di sfruttare di più questo capitale umano e questo potenziale di lavoro altamente qualificato? Non solo le ricerche macro mostrano una relazione tra occupazione femminile e crescita economica, le ricerche micro mostrano che sono proprio i gruppi di lavoro “misti” a essere più produttivi dei gruppi tutti maschili o tutti femminili. (3) Se nella maggior parte delle imprese, ma - aggiungiamo noi - anche nella maggior parte delle istituzioni, i comitati esecutivi e i consigli d’amministrazione sono formati esclusivamente da maschi fra i 50 e i 65 anni, il reclutamento e le progressioni di carriera femminili seguono i criteri del genere dominante e sono basati su quella cultura e quel linguaggio. Tuttavia, aggiungiamo ancora noi, l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro è stato anche il risultato di una “mascolinizzazione” dei modelli femminili, mentre niente di analogo è avvenuto nei modelli di carriera e negli stili di leadership maschili. Da un lato, le culture aziendali sono rimaste caratterizzate da modelli, da stili e da tempi di lavoro “maschili”, anche quando le imprese hanno cominciato a popolarsi di schiere di personale femminile. Dall’altro, come mostrano i confronti internazionali, alla crescita della partecipazione al lavoro femminile è corrisposta una scarsa o nulla crescita della partecipazione degli uomini al lavoro domestico e di cura dei figli anche quando le donne lavorano con orari simili e in particolare in Italia. In questo quadro è importante cercare di rendere le politiche di conciliazione, part-time e congedi di genitorialità, più gender-neutral. Servono cioè politiche o interventi che sostengano le scelte di lavoro e di famiglia di uomini e donne. Nei paesi scandinavi e in Francia, le politiche pubbliche sostengono uomini e donne che lavorano: i congedi non troppo lunghi sono fruibili da ambedue i genitori, anche part time, sono stati introdotti servizi di vario genere e tipologia per i genitori, è previsto il telelavoro da casa, sempre per ambedue i genitori. E in quei paesi, la partecipazione femminile al mercato del lavoro e la fertilità sono più alte che nel resto d’Europa.

(1) A. Wittenberg-Cox e A Maitland Rivoluzione Womenomics, Il Sole 24Ore, 2010 eClaire Shipman eKatty KayWomenomics, Cairo 2010.

(2) Ferrera M. Il fattore D, Mondatori 2007

(3)Come mostrano i calcoli di una ricerca di Goldman Sachs citata in Rivoluzione Womenomics, colmare il gap occupazionale di genere potrebbe produrre incrementi del Pil del 13 per cento nell’Eurozona, del 16 per cento in Giappone e ben del 22 per cento in Italia.

martedì 9 marzo 2010

Parole, Pensieri: per dare un senso a questa storia

Il mondo, anche questo terribile, intricato mondo di oggi può essere conosciuto, interpretato, trasformato, e messo al servizio dell'uomo, del suo benessere, della sua felicità. La lotta per questo obiettivo è una prova che può riempire degnamente una vita.

Enrico Berlinguer, 7 giugno 1984

sabato 6 marzo 2010

8 Marzo: nel ricordo di tutte le donne che lottarono e ancora lottano per i diritti, il lavoro, la dignità

L’8 marzo prossimo è il centenario di una ricorrenza, la Giornata Internazionale della Donna, che fu celebrata per la prima volta nel 1910 su iniziativa di Clara Zetkin a Copenaghen durante la Conferenza internazionale delle donne socialiste.

La Giornata della Donna fu istituita per invitare alla riflessione sulla condizione femminile e per organizzare lotte che portassero al miglioramento delle condizioni di vita delle donne: così l’8 marzo assunse nel tempo una importanza mondiale, diventando il simbolo della lotta contro le vessazioni e le ingiustizie subite per secoli.

Molti anni sono passati da quel giorno, e anche questa ricorrenza, al pari tante altre, ha subito una involuzione in senso puramente consumistico e commerciale, venendo anche svilita nel suo senso più profondo e ridotta a occasione di intrattenimenti di dubbio gusto.

Eppure le condizioni che resero l’8 marzo una giornata così importante non sono state rimosse: le donne subiscono ancora molte ingiustizie e discriminazioni e sono spesso oggetto di violenza fisica e psicologica.

Secondo quanto riferisce l’ONU in un recente rapporto, due terzi della popolazione femminile adulta del mondo non sa leggere e scrivere. Ogni giorno muoiono di parto 1500 donne e vi sono paesi dove le donne hanno meno diritti degli uomini.

Venendo all’Europa, un'indagine conoscitiva dell'Istat ha mostrato che con il protrarsi della crisi economica, le condizioni del mercato del lavoro sono andate peggiorando in particolare per il lavoro femminile, il cui tasso di occupazione nell'insieme dei paesi dell'Ue ha registrato, nel corso del 2009, progressivi arretramenti, posizionandosi al 58,7 %.

Per l’Eurispes il ruolo e la condizione della donna oggi in Italia presentano il rischio di una pericolosa involuzione culturale, sociale ed economica.

Anche sul piano culturale, le rilevazioni effettuate dall’Eurispes mostrano la persistenza di vecchi incrostazioni e luoghi comuni: pensiamo, solo per fare un esempio, a quel 40% di uomini che ritiene che la cura della casa sia soprattutto compito della donna.

In materia di spesa pubblica per la famiglia, la casa e l’esclusione sociale, l’Italia si colloca al penultimo posto della graduatoria europea, cui dedica appena l’1,1% del Pil, contro una media della Ue a 15 pari al 3,4%.

Le donne continuano inoltre ad essere le principali vittime di violenze fisiche e psicologiche: ben 1 milione e 150.000 in Italia nel 2006, e solo pochissime hanno sporto denuncia. Sembra incredibile, ma ancora oggi la mortalità delle donne tra i 15 e i 55 anni è causata da molestie e violenze più che da incidenti e malattie, e questo nonostante le leggi che sono state varate per tentare di arginare il fenomeno.

Oltre a tutto ciò, assistiamo nel mondo “occidentale” ad una sempre più marcata mercificazione del corpo femminile, ridotto a puro media promozionale per la vendita di beni e servizi, quando non esso stesso oggetto di vendita e di scambio di favori e potere. La sottocultura del velinismo, che ha nuovamente relegato la donna a ruoli di cornice e di puro intrattenimento, ha raggiunto un grado di penetrazione nella società impensabile solo alcune decine di anni orsono, segnando un pauroso regresso nel grado di autocoscienza da parte delle giovani generazioni.

Basterebbero questi argomenti, ma non sono i soli, a farci dire che occorre una forte ripresa delle tematiche che ruotano attorno alla questione femminile: l’azione politica del Partito Democratico deve continuare a farsene carico e proporre soluzioni in grado di dare risposte concrete e alternative al vuoto di senso prodotto dall’ideologia della destra. Occorre investire di più nell'educazione al rispetto della donna, del suo corpo, della sua dignità e libertà. La violenza sulle donne, come le altre forme violente di discriminazione e oppressione, nasce dal mancato rispetto di principi e valori fondamentali sanciti dalla Carta costituzionale, e su questo occorre un forte e costante impegno, a tutti i livelli.

Le donne, la politica e la società
Gli ultimi mesi hanno portato al centro del dibattito pubblico e istituzionale la scarsa presenza delle donne in politica. Il tema si affianca a quello, più generale, sulle pari opportunità, ed ha portato ad interrogarsi sugli elementi che possono fornire effettiva sostanza a tale principio. L’uguaglianza formale non garantisce eguali condizioni di partenza. Da questo punto di vista, le quote rosa o, più in generale, le misure volte a favorire un trattamento speciale nei confronti del genere femminile, mirano a contrastare la dinamica per cui le donne continuano ad essere discriminate e lontane dalla politica e, in generale, da tutti i posti decisionali.

Che vi siano difficoltà alla realizzazione di una rappresentanza di genere più equilibrata delle donne in politica e, in generale, nelle cosiddette “stanze dei bottoni” è una realtà da tutti riconosciuta, mentre sono diversi gli approcci seguiti per farvi fronte.

Il nostro segretario, Pier Luigi Bersani durante il discorso di insediamento dell’Assemblea Nazionale, ha affrontato l’argomento affermando che il PD è un partito che “non accetta una posizione discriminata delle donne nell’economia, nella societá, nelle istituzioni. Nei centri decisionali, c’è il cuore della discriminazione che deve essere affrontata con interventi normativi su un sistema transitorio di quote che il Partito democratico deve avanzare sollecitando un movimento di opinione”.

E se una legge sulle quote rosa da sola non basta, perché occorrono anche azioni che possano favorire una maggiore partecipazione delle donne alla vita pubblica (misure di conciliazione famiglia lavoro, più asili nido, maggiore ripartizione dei carichi familiari tra i due sessi), è certo che su questo tema occorre insistere molto nei mesi a venire perché le donne possano essere messe nelle condizioni di dare il loro contributo allo sviluppo della società e del Paese.

Buon 8 marzo, a tutte e a tutti, perché sia davvero una giornata di riflessione e di festa.

lunedì 1 marzo 2010

Sciopero dei Lavoratori Migranti

Oggi si svolge il primo sciopero dei lavoratori migranti: è una grande occasione per riaffermare i diritti di tutti i lavoratori, italiani e stranieri, regolari e irregolari: perchè chi lavora ha diritto a ricevere una retribuzione adeguata e adeguate protezioni sociali, ha diritto a non essere sfruttato e deve vedere riconosciuta la propria dignità. I diritti o sono per tutti o non sono per nessuno, per questo difendere i diritti dei migranti equivale a difendere anche i nostri stessi diritti.

Il PD ha aderito allo sciopero dei migranti e invita tutti a partecipare alla manifestazione di domani.


LUNEDI 1 MARZO CON CONCENTRAMENTO ALLE 18.00 IN PIAZZA COMMENDA-GENOVA PARTIRA' IL CORTEO PER LA GIORNATA DEI MIGRANTI CORTEO CHE ATTRAVERSERA' TUTTO IL CENTRO PER CONCLUDERSI IN PIAZZA MATTEOTTI.

Insieme contro il razzismo e le discriminazioni
un 1 marzo di mobilitazione per i diritti e la dignità

domenica 28 febbraio 2010

L’Italia è una repubblica fondata sull’automobile. Libera scelta? Necessità? Con quali costi economici e sociali? L’alternativa possibile.

In occasione della giornata senza traffico indetta in molti Comuni del Nord Italia, una riflessione sulla mobilità in Italia e sulle possibili alternative all’attuale sistema basato sull’uso dell’auto privata: una scelta libera o motivata dalla necessità? E ancora: ci conviene questo sistema oppure stiamo pagando complessivamente un prezzo troppo elevato?

E’ arrivata, tra le polemiche, la domenica senza auto in molti Comuni della Valle Padana. Il motivo lo conosciamo, livelli di smog altissimi al punto da preoccupare seriamente le autorità che vigilano sulla salute pubblica. Il problema è noto, ed è il frutto di anni di mancata programmazione su diversi fronti.Appare evidente che, in situazioni di forte urbanizzazione, il sistema della mobilità basato in gran parte sull’auto privata evidenzia molti problemi: malattie legate all’inquinamento, incidenti stradali (con i relativi altissimi costi sociali) e altri ingenti costi sostenuti dai singoli cittadini e dalle famiglie per manutenere i mezzi di trasporto privati, che si sommano a quelli devoluti tramite la fiscalità generale al mantenimento del sistema dei trasporti pubblici.

L’aver poi disseminato le campagne di periferie senza una adeguata programmazione urbanistica ha reso praticamente obbligata per migliaia di cittadini la scelta di usare il mezzo privato, mentre le città vedono un enorme patrimonio edilizio (20 milioni di vani vuoti) sempre più sottoutilizzato a causa dei prezzi altissimi delle locazioni e delle vendite.

Quanto costa l’inquinamento?
Costi socialiCittaitalia, la fondazione che sviluppa le ricerche per l'Associazione nazionale dei comuni, ha fatto un'indagine approfondita nelle quindici principali città d'Italia arrivando a calcolare 2.6 miliardi di euro persi per il lento movimento fra casa e ufficio, la benzina consumata senza aver percorso nemmeno un metro, la mancata produttività e i danni ambientali. A quest'enorme cifra di denaro vanno aggiunti 3 miliardi di euro per gli incidenti stradali: mezzo punto di Pil bruciato. E se si estendesse l'indagine a tutto il Paese, solo in incidenti stradali si arriverebbe a 15 miliardi di euro, pari a 2,5 punti di Pil. Alcuni esempi: a Roma il costo per abitante è in media di 1.351 euro all’anno, a Napoli si arriva a 905 euroe a Genova a 881 euro e calcola, oltre ai costi del carburante, anche gli oneri ambientali e i costi privati.

Salute e inquinamento
Secondo il recente dossier diffuso dai Verdi, in Italia per inquinamento ambientale si piangono ben 7.400 morti all’anno, ovvero, almeno 20 italiani ogni giorno muoiono per queste cause, fatto questo che si riflette anche su un immane costo sociale pari a 4 miliardi e mezzo di euro divisi, quasi equamente, fra spese sanitarie e giornate di lavoro perse. “Un sostanziale numero di decessi, ricoveri ospedalieri e disturbi respiratori, specie nei bambini, sono attribuibili all’inquinamento atmosferico urbano”. L’ordine di grandezza “è delle migliaia o decine di migliaia di casi per anno nelle otto maggiori città italiane”. Complessivamente, secondo diversi studi scientifici (Misa 2-Epair), sottolinea il dossier dei Verdi, “il numero di decessi provocati in tutta Italia dagli inquinanti come Pm10, NO2, CO, O3 sono intorno a 7.400 l’anno. 20 persone al giorno muoiono a causa dell’inquinamento atmosferico nel paese. Una gravissima emergenza sanitaria”.

Quanto costa aver scaricato il problema trasporti sui singoli cittadini?
Oltre ai costi per salute e perdita di giornate lavorative, sono altrettanto alti i costi che gli Italiani devono sostenere per potersi spostare in auto.

Costi di acquisto e di mantenimento
Nel decennio 1994-2004 il prezzo di un'autovettura media è aumentato del 36%. Ancora più rilevante è stato l'incremento dei costi di esercizio che nello stesso periodo hanno fatto registrare una crescita del 40%. Questi tassi di incremento vanno valutati tenendo conto che nello stesso periodo l'aumento del livello generale dei prezzi al consumo è stato, secondo l'Istat, del 30%. Questi dati derivano da un'analisi condotta dall'ufficio studi di LeasePlan Italia, azienda leader nel noleggio a lungo termine, che ha posto a confronto i dati ufficiali pubblicati dall'Aci sui costi di esercizio nel 1994 e nel 2004.

Il maggior incremento ha riguardato i premi per l'assicurazione R.C., che nel 1994 erano la quarta voce di spesa (dopo ammortamento, carburante e manutenzione) e che, con una crescita di ben il 210%, balzano al secondo posto nel 2004 e al primo posto nel 2008 (+134%). Sempre nel 2008, al secondo posto troviamo il costo per i carburanti (+ 45%) e, staccati tra loro solo da qualche punto percentuale il “terzetto” bollo (+ 18%), pneumatici (+ 14%) e spesa di ammortamento (+12%).

Secondo l’Adusbef, già nel 2006 mantenere un’auto costava annualmente ben 4000 euro a famiglia. Considerando i soli costi vivi (al netto quindi dei costi di ammortamento dell'acquisto di un'auto) chi usa i mezzi pubblici spende quattro volte di meno, in media, rispetto a chi usa l'auto.
"Le tasse che gravano su auto e moto - denunciava l’associazione - obbligano gli italiani a spendere ogni anno il 5,6% delle proprie entrate per il mantenimento del veicolo, tanto che il 75% delle famiglie, il cui reddito non supera i 20mila euro, è costretto a indebitarsi per sopravvivere. Inoltre, gli italiani devono mettere in conto, nei costi di gestione di una vettura anche la polizza Rc Auto".

A gravare sugli utenti, sia automobilisti sia motociclisti, secondo l’associazione, sono soprattutto voci come l’Iva, le accise e le imposte di fabbricazione dei carburanti, per le quali annualmente la spesa complessiva ammonta a circa 36,9 miliardi, a cui bisogna sommare l’Iva sull’acquisto dei veicoli e degli accessori, per un importo pari a 8,8 miliardi di euro. Ma se le imposte rappresentano le maggiori voci di uscita, sostanziose appaiono anche le cifre relative alla manutenzione ordinaria: ogni anno gli automobilisti spendono 5,3 miliardi per l’Iva sulla manutenzione dei mezzi e dei pneumatici. "Il governo continua a usare la mano pesante su auto e moto che, calcolando l’ultima stangata sui bolli e l’aumento relativo alle revisioni, costano oltre 4mila euro l’anno, per un gettito fiscale superiore ai 65 miliardi.

E se a questo si aggiunge l’Rc auto si arriva a 85,5 miliardi", sottolinea l’Adusbef, denunciando come l’effetto degli aumenti delle spese che gravano sui trasporti conduca a un singolare paradosso: in Italia su un parco circolante di 33 milioni di veicoli, 21 milioni di utenti pagano spese annue superiori al valore del bene assicurato.L’ACI stima del resto che ben un quinto delle imposte incamerate dallo Stato derivino dall’industria dell’auto: possiamo ben dire che l’Italia è una Repubblica fondata sull’automobile. Ma è davvero un modello vantaggioso per il nostro Paese?

Cosa fare?
Molto probabilmente è tempo di riconsiderare molto attentamente l’organizzazione delle nostre città e del nostro territorio, e impostare una pianificazione che sappia dare risposte nel breve, nel medio e nel lungo termine.

Alcuni esempi di interventi possibili
Riorganizzazione radicale della rete del trasporto pubblico;
Riformare il sistema di distribuzione urbana delle merci;
Incentivare l'acquisto di auto di piccola taglia e cilindrata con sistemi di alimentazione alternativi (ibridi o a metano);
Incentivare l’uso del car-sharing;
Potenziare le ferrovie, migliorando le catene logistiche nel loro complesso, piuttosto che la semplice velocità su tratte tra loro separate;
Predisporre sistemi di mobilità integrata tra diversi tipi di trasporto;
Promuovere interventi di ridensificazione urbana per ridurre le distanze tra centri e periferie e ottimizzare la dotazione infrastrutturale e di servizi;
Incentivare la messa sul mercato di appartamenti vuoti per essere affittati;
Ridistribuzione dei servizi e studio del mix di funzioni nei quartieri cittadini;
Promuovere la filiera corta (prodotti del territorio, artigianato locale, ecc.);
Promuovere il telelavoro e tutte le tecnologie che permettano di ridurre gli spostamenti fisici, quali ad esempio le videoconferenze. Questo permetterebbe enormi risparmi anche sui tempi e i costi di viaggio, sia nel pubblico, sia nel privato.

venerdì 5 febbraio 2010

Premio "Faccia di Tolla" a Montezemolo

Montezemolo: "con me alla Fiat mai un euro dallo Stato"

Propongo di dare a Montezemolo il premio "Faccia di Tolla" e anche quello speciale "Ma mi faccia il piacere". Inoltre propongo che invece degli incentivi agli industriali che poi magari delocalizzano in Serbia o in Moldavia si usino i soldi per dare sussidi veri ai disoccupati, incentivando semmai le aziende che innovano e creano posti di lavoro in Italia ad esempio nel campo delle nuove tecnologie e delle energie rinnovabili.

giovedì 4 febbraio 2010

Processo breve? Meglio allora il "Processo subito"

Nel corso del Consiglio Provinciale che si è svolto ieri ho illustrato la proposta del PD detta "processo subito" che prevede una corsia preferenziale per i procedimenti a carico delle "alte cariche" e dei parlamentari.

La maggioranza che attualmente governa il Paese è ultimamente molto sensibile a quello che viene chiamato processo “breve” o “giusto”, al tema della certezza della pena così come alle garanzie per le vittime e per gli imputati.
Questo è un proposito condivisibile (ancorché oggi le emergenze da affrontare nel Paese siano piuttosto, a mio parere, quelle sulla crisi economica e occupazionale).
Tutti i cittadini dovrebbero poter contare su una giustizia rapida e in tempi certi, ed è vero che chi svolge importanti ruoli pubblici è particolarmente esposto agli effetti di clamorosi annunci di inchieste giudiziarie, anche quando queste poi si rivelino prive di fondamento.
Questo è un problema che va affrontato in primo luogo fornendo strumenti e risorse adeguate alla macchina della giustizia.
Imporre ai tempi processuali dei termini rigidi, prescindendo dalle condizioni oggettive in cui i magistrati si trovano ad operare sarebbe come imporre ad un medico di curare la polmonite senza far uso di antibiotici.
Non solo i tempi della guarigione si allungherebbero invece che ridursi, ma peggiorerebbe di molto anche la salute del paziente.
Di questo argomento del processo breve tuttavia si è parlato solo quando il problema ha riguardato le cosiddette “alte cariche” e in seguito anche onorevoli e senatori.
Si tratta, è vero, di persone e ruoli molto esposti al pubblico giudizio, e spesso il solo fatto di essere stati oggetto di provvedimenti cautelari ne ha danneggiato se non stroncato l’attività politica e amministrativa.
E allora perché non dare una corsia privilegiata e più veloce ai processi in cui le alte cariche e i parlamentari dovessero trovarsi ad essere imputati?
Pare l’uovo di Colombo: l’indagato ha tutto l’interesse a vedere subito chiarita la sua posizione, senza dovere dare dimissioni preventive. Lo si potrebbe chiamare “processo subito”.
Non si comprende allora perché il PDL abbia definito una provocazione questa proposta avanzata dal PD alla Camera dei Deputati come emendamento al testo sul “legittimo impedimento” attualmente in discussione alla Camera.
Il testo va proprio nella direzione più volte auspicata dallo stesso PDL, mirando ad abbreviare i tempi della giustizia e di fare chiarezza sugli eventuali addebiti nei confronti dei politici coinvolti.
Se l’emendamento verrà bocciato in questa occasione noi del PD lo ripresenteremo come ddl autonomo o ancora come emendamento alla legge sul “giusto processo” il cui esame è stato rinviato a fine giugno.
Spero che questa proposta del PD verrà presa in considerazione poiché è giusto che chi è sfiorato dal sospetto, specie se persona pubblica, possa al più presto chiarire la propria posizione e presentarsi a fronte alta, se innocente, al cospetto della pubblica opinione.
Parallelamente è giusto sapere il prima possibile chi sono le persone che ci governano e ci amministrano, e la proposta del PD ha anche questo scopo di trasparenza nei confronti dei cittadini.

mercoledì 3 febbraio 2010

Dallo statuto dei lavoratori ai nuovi schiavi di Rosarno

La rivolta dei braccianti di Rosarno, che ricorda per diversi aspetti i moti dei braccianti agricoli contro lo sfruttamento dei latifondisti di molti decenni passati, sembra far tornare indietro l’orologio della storia.
Se circa un secolo fa i contadini erano assoggettati al potere del latifondo anche grazie alla repressione esercitata dal potere militare del Regno d’Italia, oggi sono le leggi volute dal governo di destra a negare ogni diritto ai braccianti clandestini, ridotti in semischiavitù e obbligati a lavorare in condizioni disumane sotto la minaccia della denuncia all’autorità costituita.
Ma la lotta dei braccianti di Rosarno non è dissimile da quella degli operai che salgono sui tetti delle fabbriche: in entrambi i casi vi è soprattutto la rivendicazione di diritti fondamentali, diritti che in Italia sono stati duramente conquistati (per tutti i lavoratori, è bene dirlo) e che, ultimamente, vengono messi in discussione e negati, troppo spesso nell’indifferenza generale.

La grande conquista della dignità del lavoro
Il prossimo 20 maggio lo Statuto dei Lavoratori compirà 40 anni. Esso fu il risultato di una strenua lotta politica e sociale che vide coinvolti nell’autunno del 1969 oltre sette milioni di lavoratori che si unirono per rivendicare i loro diritti.

Tra le numerose richieste avanzate dai lavoratori e recepite dallo Statuto, ricordiamo la riduzione dell'orario di lavoro a 40 ore settimanali, gli aumenti di stipendio e il diritto di assemblea. Grazie allo Statuto venne inoltre normato il controllo delle assenze per malattia o infortunio, si riconobbe il diritto a non essere discriminati se studenti lavoratori o sindacalisti, e si introdusse il principio dell’annullamento del licenziamento per giusta causa.

Lo Statuto dei Lavoratori rappresenta il raggiungimento di un alto grado di democrazia e il riconoscimento della dignità del lavoro, un importante traguardo che ha il suo diretto riflesso nell’alto grado di democrazia raggiunto dalla società italiana nel suo complesso. Un patrimonio di coscienza civile che nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro ha costituito il baluardo contro il quale si sono infranti la stagione delle stragi e del terrorismo, consentendo alla democrazia italiana di proseguire il suo cammino costituzionale.

Negli anni 80 e 90 lo Statuto ha mantenuto la forza di garanzia non soltanto dei lavoratori occupati, ma anche dei lavoratori disoccupati, con forme d'incentivazione dell'occupazione e di sostegno alla produzione che trovavano nello Statuto il preciso punto di riferimento, anche per quanto riguarda gli ammortizzatori sociali.

L’attacco all’articolo 18: dalla flessibilità alla precarietà
L’art.18 dello Statuto dei Lavoratori sancisce l’impossibilità per il datore di lavoro di licenziare un dipendente senza giusta causa ed è la chiave di volta del sistema.
Sono stati diversi, negli ultimi dieci anni, i tentativi di modificare o addirittura abolire l’art. 18 dello Statuto. Tali tentativi, portati avanti dalla destra, costituiscono un grave attentato all’integrità e all’efficacia dell’insieme delle garanzie dello Statuto stesso. Appare infatti evidente come diventi di fatto inutile il riconoscimento ai lavoratori del diritto di rivendicare il rispetto dell'orario di lavoro, delle mansioni, dei diritti sindacali, della libertà di opinione, di rivendicare il pagamento degli straordinari, e così via se si può essere licenziati senza giusta causa e senza poter avere la previsione della reintegrazione.

In altre parole, la paura di essere licenziati senza possibilità di reintegrazione rischierebbe di indurre i lavoratori a non esercitare pienamente i diritti che 60 anni di vita democratica e sindacale hanno loro garantito. La dignità, l'autostima, il diritto a manifestare le proprie opinioni e ad esercitare le proprie libertà, nell'ambito delle leggi che li regolano, sono valori non monetizzabili.
La dignità del lavoratore sul posto di lavoro è un presupposto fondamentale per la realizzazione piena del cittadino, è un diritto tutelato dalla nostra Costituzione, e non può essere accettato un risarcimento in sostituzione di questi valori.

Come diceva Piero Calamandrei nel 1955: “Dare lavoro a tutti, dare una giusta retribuzione a tutti, dare la scuola a tutti, dare a tutti gli uomini dignità di uomo. Soltanto quando questo sarà raggiunto, si potrà veramente dire che la formula contenuta nell’art. 1 “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”, questa formula corrisponderà alla realtà. Perché fino a che non c’è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e studiare e trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica, perché una democrazia in cui non ci sia questa eguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto una eguaglianza di diritto, è una democrazia puramente formale.

Si comprende quindi l’impegno con il quale i vari governi di destra si sono adoperati per rimettere in discussione l’art. 18, cercando di sopprimerlo o, almeno, di depotenziarne di molto la portata.

La grande risposta data dai lavoratori in occasione della manifestazione di Roma del 2002, quando risposero al richiamo della CGIL guidata da Sergio Cofferati gli ormai celebri 3 milioni di persone, ha potuto in qualche modo, allora, frenare i colpi portati all’art. 18 dalla destra al Governo.

E tuttavia già l’anno successivo l’introduzione della legge 30, la cosiddetta Legge Biagi, ha in qualche modo permesso la neutralizzazione dell’art. 18 per una larga parte di lavoratori introducendo tutta una serie di nuove casistiche lavorative che, se nelle intenzioni dichiarate dal Governo dovevano servire a facilitare l’accesso al mondo del lavoro soprattutto dei giovani, hanno di fatto permesso la trasformazione di ampi settori di lavoro stabile in aree di lavoro precarizzato.

Alla prevista flessibilità non ha fatto seguito una riforma sugli ammortizzatori sociali, tramutando di fatto una situazione di lavoro flessibile in una situazione precaria, e soprattutto non si è creato un contesto economico nel quale è facile e rapido il ricollocamento nel mondo del lavoro.

Circa gli effetti della legge 30, che secondo i suoi sostenitori avrebbe ridotto comunque la disoccupazione, si può osservare che il fenomeno è si diminuito in termini percentuali, ma al prezzo di un abbassamento della qualità delle retribuzioni. La possibilità di stipulare contratti anche di breve durata, ha introdotto inoltre una perturbazione nel calcolo dell’effettivo livello di disoccupazione, poiché le statistiche tengono conto solo dell’inizio del rapporto di lavoro, quindi è accaduto che il tasso di occupazione registrato fosse superiore rispetto a quello reale.

Dal punto di vista dei rapporti di forza tra offerta e domanda di lavoro, è chiaro che sono i datori di lavoro ad aver segnato un cospicuo vantaggio, mentre i lavoratori salariati hanno visto indeboliti i loro diritti e anche gli stessi lavoratori a tempo indeterminato si sono visti affiancare una “concorrenza” costituita da lavoratori precari ed interinali, molto meno costosi e molto più “flessibili”, tanto che si sono verificati casi in cui, all’opposto di quanto affermato da chi si dichiarava a favore della legge 30, si è iniziato a “dismettere” lavoratori stabili, magari più “anziani” e quindi più costosi, per assumere con le nuove forme contrattuali, giovani precari cui poter rinnovare praticamente all’infinito un contratto a progetto o co.co.co.

La flessibilità è stata pagata tutta dai lavoratori: un conto sarebbe stato infatti compensare la flessibilità richiesta al lavoratore con un cospicuo aumento salariale per unità di tempo della prestazione, analogamente a quanto avviene ad esempio per una prestazione professionale, ma altro è invece l’attuale sistema che fa costare assai meno al datore di lavoro un lavoratore flessibile rispetto ad uno stabile, potendo reiterare eventualmente all’infinito il rapporto.
E’ chiara la convenienza economica per il datore di lavoro a utilizzare forme di precariato, specie per impieghi poco professionalizzati.


Oltre il precariato, lo sfruttamento
Rosarno, Castelvolturno, ma anche Prato e chissà quali altri gironi infernali del lavoro nero e dello sfruttamento della mano d’opera a basso costo rappresentano in fondo l’ultima frontiera del precariato, e un’ulteriore riallineamento verso il basso dei parametri di remunerazione del lavoro di braccianti e operai.

Descrivere questi fenomeni considerandoli del tutto estranei ai circuiti dell’economia “ufficiale” è a mio avviso del tutto inesatto poiché è pur vero che l'impresa che opera nel sommerso, e il lavoratore in "nero", pur collocandosi in un segmento nascosto dell'economia, finiscono per entrare in contatto e interagire con l'economia "regolare" in molte occasioni. Dunque, l'economia sommersa nei paesi industrializzati finisce per convivere e per interagire a vari livelli con i meccanismi di mercato che governano il funzionamento del sistema economico.

Non si spiega altrimenti la scala raggiunta dal fenomeno, le migliaia di persone impiegate nell’agricoltura al sud, così come i tantissimi operai cinesi che lavorano clandestinamente nelle fabbriche sparse per l’Italia.

Se analizziamo questi fenomeni, abbiamo un quadro impressionante di cosa sia oggi l’economia sommersa italiana: un enorme buco nero che secondo le ultime stime della Banca d’Italia rappresenta oltre il 15% dell’attività economica.

Tutti i tentativi di far emergere il lavoro nero si sono rivelati, ad oggi, deludenti, tanto che il nostro paese vanta il poco invidiabile primato dell’Europa. Sono state emanate leggi che hanno avuto una scarsa adesione anche per la complessità dei meccanismi di emersione adottati, e nonostante spesso contenessero degli elementi di grande indulgenza verso coloro che avevano fatto uso di questo tipo di lavoro. I lavoratori in nero non vedono rispettati i loro diritti e devono accontentarsi del poco che riescono ad ottenere.

Il fenomeno dei clandestini introduce una variabile nuova, poiché siamo di fronte ad una massa di persone particolarmente deboli dal punto di vista della lingua, della conoscenza delle leggi e dei loro diritti. La loro situazione di irregolarità li mette inoltre in una condizione di completa sudditanza verso i loro sfruttatori, che hanno armi ancora più forti di ricatto.

La verità è che i clandestini servono perché rappresentano una forza lavoro a prezzi stracciati, più competitiva ancora del lavoro nero fornito dagli italiani e dagli immigrati “regolari”: essi sono dei senza diritti e possono quindi essere sottoposti ad angherie e soprusi ancora peggiori rispetto ai “semplici” lavoratori in nero. L’aver approvato la legge che introduce il reato di clandestinità rende ancora più evidente il suo vero scopo, ossia quello di mantenere serbatoi di lavoratori a basso costo.

Con questa ulteriore involuzione del mercato del lavoro, potremmo dire che il cerchio si chiude.

Alla fine degli anni ’60 le dure lotte dei lavoratori italiani hanno permesso il riconoscimento della dignità del lavoro e hanno portato l’ottenimento di uno degli Statuti più avanzati del mondo in termini di tutele dei diritti.

Oggi, potremmo ben dire che molto di quelle conquiste si è perso e la crisi economica, la globalizzazione, i tanti cambiamenti della nostra società non possono, io credo, interamente spiegare questo riflusso, questo ripiegamento dei diritti.

Su questo tema è venuto il momento di promuovere un vasto e rinnovato dibattito, che sia in grado di rimettere al centro valori quali la dignità del lavoro, i diritti (e i doveri) dei lavoratori, la flessibilità unita alle reti di protezione sociale, l’accoglienza e il riconoscimento del valore economico e sociale del lavoro degli immigrati, che può rivelarsi determinante, se opportunamente regolarizzato, per riequilibrare la progressiva decrescita demografica che avrà, se non opportunamente corretta, effetti devastanti sul welfare negli anni futuri.

lunedì 1 febbraio 2010

La Costituzione di Brunetta: distruzione o innovazione?

Piero Calamandrei (26 gennaio 1955): “Dare lavoro a tutti, dare una giusta retribuzione a tutti, dare la scuola a tutti, dare a tutti gli uomini dignità di uomo. Soltanto quando questo sarà raggiunto, si potrà veramente dire che la formula contenuta nell’art. 1 “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”, questa formula corrisponderà alla realtà. Perché fino a che non c’è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e studiare e trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica, perché una democrazia in cui non ci sia questa eguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto una eguaglianza di diritto, è una democrazia puramente formale. Non è una democrazia in cui tutti i cittadini siano veramente messi in grado di concorrere alla vita della società, di portare il loro migliore contributo, in cui tutte le forze spirituali di tutti i cittadini siano messe a contribuire a questo cammino, a questo progresso continuo di tutta la società; e allora voi capite da questo che la nostra Costituzione è in parte una realtà, ma soltanto in parte è una realtà; in parte è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno, un lavoro da compiere”.

don Giuseppe Dossetti (18 settembre 2004): “C’è una soglia che deve essere rispettata in modo assoluto. Oltrepasserebbe questa soglia qualunque modificazione che si volesse apportare ai diritti inviolabili civili, politici, sociali previsti dall’attuale Costituzione. E così pure va ripetuto per una qualunque soluzione che intaccasse il principio della divisione e dell’equilibrio dei poteri fondamentali,legislativo, esecutivo e giudiziario”.

Renato Brunetta (2 gennaio 2010): “Mi faccia dire una cosa che ancora non ho detto: la riforma non dovrà riguardare solo la seconda parte della Costituzione, ma anche la prima. A partire dall’articolo 1: stabilire che “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro” non significa assolutamente nulla”.

domenica 31 gennaio 2010

PROVINCIA: SÌ DAL CONSIGLIO ALLA MOZIONE SULLA CRISI NEL TIGULLIO

Presentata da Sonia Zarino (PD) ha ricevuto il voto favorevole di tutta la maggioranza e del consigliere Tassi (PDL) e le astensioni di Paolo Bianchini dello stesso gruppo e di Massimo Pernigotti (Lista Biasotti).

Genova, 28 - Chiede l’impegno del presidente della Provincia e della giunta “nelle forme che competono all’ente” perché siano attivati “gli strumenti e le risorse disponibili, compresa la cassa integrazione in deroga, per affrontare nel modo più efficace possibile la situazione di vera e propria emergenza che si è determinata nel Tigullio” e per “mettere in atto gli opportuni strumenti concertativi con gli enti locali e le parti sociali affinchè alle iniziative immediate per fronteggiare la crisi si affianchi una azione per determinare il rilancio complessivo del Tigullio”.

E’ la mozione sulla crisi del tessuto economico e produttivo nel levante provinciale presentata da Sonia Zarino, Simone Pedroni e Maria Angela Milanta (PD) che il Consiglio Provinciale, dopo il dibattito – concluso dall’assessore Paolo Perfigli e in cui con Zarino sono intervenuti i consiglieri Maurizio Barsotti (PDL) e Massimo Pernigotti (Lista Biasotti) - ha approvato con il voto favorevole di tutta la maggioranza e del consigliere Giuseppe Tassi (PDL), mentre si sono astenuti Paolo Bianchini dello stesso gruppo e Massimo Pernigotti (LB).

Per la consigliera Zarino “la crisi economica si è ulteriormente approfondita e contrariamente a quanto si sta dicendo a livello nazionale non si intravvedono spiragli perché i dati delle organizzazioni sindacali e della Camera di Commercio in dodici mesi segnalano che 254 attività del settore manifatturiero hanno chiuso e nell’entroterra del Tigullio sono state 74 le imprese cancellate, mentre i cassintegrati sono aumentati in modo esponenziale e le stime più ottimistiche dicono che solo il 70% rientrerà al lavoro.

E’ nostro dovere cercare azioni strutturali per aiutare il Tigullio ad uscire dalla crisi, con un impegno specifico nei confronti del tessuto produttivo - che chiede anche infrastrutture e spazi dal tunnel della Fontanabuona, al prolungamento di viale Kasman, alla colmata di Lavagna, alle aree per la Lames - per comprendere anche quali siano i settori con le maggiori prospettive di rilancio e di crescita.”

Maurizio Barsotti ha detto che “l’obiettivo nel Tigullio è di risolvere problemi atavici, di spazi, per facilitare l’incremento imprenditoriale. Che gli incentivi economici regionali siano usati al meglio, semplificando le procedure per le imprese e che ci siano maggiori facilitazioni nell’accesso al credito.”

Secondo Massimo Pernigotti “la mozione contiene elementi positivi per fronteggiare la crisi partendo dagli strumenti che la Provincia può avere a disposizione, ma anche negativi perché non prevede un movimento attivo sul territorio, bensì un’azione tardiva e soprattutto generica per correre ai ripari.”

Per l’assessore Perfigli (che il 10 febbraio avrà a Chiavari con Regione, parti sociali, enti locali e categorie, un nuovo incontro per “presidiare e studiare ulteriori azioni e strumenti concreti nello sviluppo di politiche attive per il lavoro”) l’impegno della Provincia sulla crisi “è quotidiano e concreto, con assoluta consapevolezza della serietà delle difficoltà del Tigullio sulla quale occorre però anche un’analisi molto puntuale dei dati, per leggerli nella loro giusta articolazione, perché nei numeri delle imprese in crisi ce ne sono anche molte individuali.”

Le aziende hanno esigenze di spazi “e per la Faci di Carasco che chiedeva un’area per il nuovo magazzino, attraverso la pianificazione si sta avviando questa operazione, nelle scorse settimane è stato definito l’accordo di pianificazione per l’insediamento della Lames a Pian Seriallo e ora c’è bisogno che il Comune di Chiavari e l’azienda raggiungano l’intesa per arrivare all’accordo di programma conclusivo” e anche per le infrastrutture la Provincia “sta lavorando, è in atto l’iniziativa sul tunnel della Fontanabuona, su viale Kasman ci sono ancora opinioni diverse, ma la Provincia sta dando tutto l’impulso possibile e il progetto per la colmata di Lavagna potrà rispondere alle esigenze di rafforzamento della nautica e vorremmo individuarvi anche la soluzione per il depuratore.”

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