domenica 28 febbraio 2010

L’Italia è una repubblica fondata sull’automobile. Libera scelta? Necessità? Con quali costi economici e sociali? L’alternativa possibile.

In occasione della giornata senza traffico indetta in molti Comuni del Nord Italia, una riflessione sulla mobilità in Italia e sulle possibili alternative all’attuale sistema basato sull’uso dell’auto privata: una scelta libera o motivata dalla necessità? E ancora: ci conviene questo sistema oppure stiamo pagando complessivamente un prezzo troppo elevato?

E’ arrivata, tra le polemiche, la domenica senza auto in molti Comuni della Valle Padana. Il motivo lo conosciamo, livelli di smog altissimi al punto da preoccupare seriamente le autorità che vigilano sulla salute pubblica. Il problema è noto, ed è il frutto di anni di mancata programmazione su diversi fronti.Appare evidente che, in situazioni di forte urbanizzazione, il sistema della mobilità basato in gran parte sull’auto privata evidenzia molti problemi: malattie legate all’inquinamento, incidenti stradali (con i relativi altissimi costi sociali) e altri ingenti costi sostenuti dai singoli cittadini e dalle famiglie per manutenere i mezzi di trasporto privati, che si sommano a quelli devoluti tramite la fiscalità generale al mantenimento del sistema dei trasporti pubblici.

L’aver poi disseminato le campagne di periferie senza una adeguata programmazione urbanistica ha reso praticamente obbligata per migliaia di cittadini la scelta di usare il mezzo privato, mentre le città vedono un enorme patrimonio edilizio (20 milioni di vani vuoti) sempre più sottoutilizzato a causa dei prezzi altissimi delle locazioni e delle vendite.

Quanto costa l’inquinamento?
Costi socialiCittaitalia, la fondazione che sviluppa le ricerche per l'Associazione nazionale dei comuni, ha fatto un'indagine approfondita nelle quindici principali città d'Italia arrivando a calcolare 2.6 miliardi di euro persi per il lento movimento fra casa e ufficio, la benzina consumata senza aver percorso nemmeno un metro, la mancata produttività e i danni ambientali. A quest'enorme cifra di denaro vanno aggiunti 3 miliardi di euro per gli incidenti stradali: mezzo punto di Pil bruciato. E se si estendesse l'indagine a tutto il Paese, solo in incidenti stradali si arriverebbe a 15 miliardi di euro, pari a 2,5 punti di Pil. Alcuni esempi: a Roma il costo per abitante è in media di 1.351 euro all’anno, a Napoli si arriva a 905 euroe a Genova a 881 euro e calcola, oltre ai costi del carburante, anche gli oneri ambientali e i costi privati.

Salute e inquinamento
Secondo il recente dossier diffuso dai Verdi, in Italia per inquinamento ambientale si piangono ben 7.400 morti all’anno, ovvero, almeno 20 italiani ogni giorno muoiono per queste cause, fatto questo che si riflette anche su un immane costo sociale pari a 4 miliardi e mezzo di euro divisi, quasi equamente, fra spese sanitarie e giornate di lavoro perse. “Un sostanziale numero di decessi, ricoveri ospedalieri e disturbi respiratori, specie nei bambini, sono attribuibili all’inquinamento atmosferico urbano”. L’ordine di grandezza “è delle migliaia o decine di migliaia di casi per anno nelle otto maggiori città italiane”. Complessivamente, secondo diversi studi scientifici (Misa 2-Epair), sottolinea il dossier dei Verdi, “il numero di decessi provocati in tutta Italia dagli inquinanti come Pm10, NO2, CO, O3 sono intorno a 7.400 l’anno. 20 persone al giorno muoiono a causa dell’inquinamento atmosferico nel paese. Una gravissima emergenza sanitaria”.

Quanto costa aver scaricato il problema trasporti sui singoli cittadini?
Oltre ai costi per salute e perdita di giornate lavorative, sono altrettanto alti i costi che gli Italiani devono sostenere per potersi spostare in auto.

Costi di acquisto e di mantenimento
Nel decennio 1994-2004 il prezzo di un'autovettura media è aumentato del 36%. Ancora più rilevante è stato l'incremento dei costi di esercizio che nello stesso periodo hanno fatto registrare una crescita del 40%. Questi tassi di incremento vanno valutati tenendo conto che nello stesso periodo l'aumento del livello generale dei prezzi al consumo è stato, secondo l'Istat, del 30%. Questi dati derivano da un'analisi condotta dall'ufficio studi di LeasePlan Italia, azienda leader nel noleggio a lungo termine, che ha posto a confronto i dati ufficiali pubblicati dall'Aci sui costi di esercizio nel 1994 e nel 2004.

Il maggior incremento ha riguardato i premi per l'assicurazione R.C., che nel 1994 erano la quarta voce di spesa (dopo ammortamento, carburante e manutenzione) e che, con una crescita di ben il 210%, balzano al secondo posto nel 2004 e al primo posto nel 2008 (+134%). Sempre nel 2008, al secondo posto troviamo il costo per i carburanti (+ 45%) e, staccati tra loro solo da qualche punto percentuale il “terzetto” bollo (+ 18%), pneumatici (+ 14%) e spesa di ammortamento (+12%).

Secondo l’Adusbef, già nel 2006 mantenere un’auto costava annualmente ben 4000 euro a famiglia. Considerando i soli costi vivi (al netto quindi dei costi di ammortamento dell'acquisto di un'auto) chi usa i mezzi pubblici spende quattro volte di meno, in media, rispetto a chi usa l'auto.
"Le tasse che gravano su auto e moto - denunciava l’associazione - obbligano gli italiani a spendere ogni anno il 5,6% delle proprie entrate per il mantenimento del veicolo, tanto che il 75% delle famiglie, il cui reddito non supera i 20mila euro, è costretto a indebitarsi per sopravvivere. Inoltre, gli italiani devono mettere in conto, nei costi di gestione di una vettura anche la polizza Rc Auto".

A gravare sugli utenti, sia automobilisti sia motociclisti, secondo l’associazione, sono soprattutto voci come l’Iva, le accise e le imposte di fabbricazione dei carburanti, per le quali annualmente la spesa complessiva ammonta a circa 36,9 miliardi, a cui bisogna sommare l’Iva sull’acquisto dei veicoli e degli accessori, per un importo pari a 8,8 miliardi di euro. Ma se le imposte rappresentano le maggiori voci di uscita, sostanziose appaiono anche le cifre relative alla manutenzione ordinaria: ogni anno gli automobilisti spendono 5,3 miliardi per l’Iva sulla manutenzione dei mezzi e dei pneumatici. "Il governo continua a usare la mano pesante su auto e moto che, calcolando l’ultima stangata sui bolli e l’aumento relativo alle revisioni, costano oltre 4mila euro l’anno, per un gettito fiscale superiore ai 65 miliardi.

E se a questo si aggiunge l’Rc auto si arriva a 85,5 miliardi", sottolinea l’Adusbef, denunciando come l’effetto degli aumenti delle spese che gravano sui trasporti conduca a un singolare paradosso: in Italia su un parco circolante di 33 milioni di veicoli, 21 milioni di utenti pagano spese annue superiori al valore del bene assicurato.L’ACI stima del resto che ben un quinto delle imposte incamerate dallo Stato derivino dall’industria dell’auto: possiamo ben dire che l’Italia è una Repubblica fondata sull’automobile. Ma è davvero un modello vantaggioso per il nostro Paese?

Cosa fare?
Molto probabilmente è tempo di riconsiderare molto attentamente l’organizzazione delle nostre città e del nostro territorio, e impostare una pianificazione che sappia dare risposte nel breve, nel medio e nel lungo termine.

Alcuni esempi di interventi possibili
Riorganizzazione radicale della rete del trasporto pubblico;
Riformare il sistema di distribuzione urbana delle merci;
Incentivare l'acquisto di auto di piccola taglia e cilindrata con sistemi di alimentazione alternativi (ibridi o a metano);
Incentivare l’uso del car-sharing;
Potenziare le ferrovie, migliorando le catene logistiche nel loro complesso, piuttosto che la semplice velocità su tratte tra loro separate;
Predisporre sistemi di mobilità integrata tra diversi tipi di trasporto;
Promuovere interventi di ridensificazione urbana per ridurre le distanze tra centri e periferie e ottimizzare la dotazione infrastrutturale e di servizi;
Incentivare la messa sul mercato di appartamenti vuoti per essere affittati;
Ridistribuzione dei servizi e studio del mix di funzioni nei quartieri cittadini;
Promuovere la filiera corta (prodotti del territorio, artigianato locale, ecc.);
Promuovere il telelavoro e tutte le tecnologie che permettano di ridurre gli spostamenti fisici, quali ad esempio le videoconferenze. Questo permetterebbe enormi risparmi anche sui tempi e i costi di viaggio, sia nel pubblico, sia nel privato.

venerdì 5 febbraio 2010

Premio "Faccia di Tolla" a Montezemolo

Montezemolo: "con me alla Fiat mai un euro dallo Stato"

Propongo di dare a Montezemolo il premio "Faccia di Tolla" e anche quello speciale "Ma mi faccia il piacere". Inoltre propongo che invece degli incentivi agli industriali che poi magari delocalizzano in Serbia o in Moldavia si usino i soldi per dare sussidi veri ai disoccupati, incentivando semmai le aziende che innovano e creano posti di lavoro in Italia ad esempio nel campo delle nuove tecnologie e delle energie rinnovabili.

giovedì 4 febbraio 2010

Processo breve? Meglio allora il "Processo subito"

Nel corso del Consiglio Provinciale che si è svolto ieri ho illustrato la proposta del PD detta "processo subito" che prevede una corsia preferenziale per i procedimenti a carico delle "alte cariche" e dei parlamentari.

La maggioranza che attualmente governa il Paese è ultimamente molto sensibile a quello che viene chiamato processo “breve” o “giusto”, al tema della certezza della pena così come alle garanzie per le vittime e per gli imputati.
Questo è un proposito condivisibile (ancorché oggi le emergenze da affrontare nel Paese siano piuttosto, a mio parere, quelle sulla crisi economica e occupazionale).
Tutti i cittadini dovrebbero poter contare su una giustizia rapida e in tempi certi, ed è vero che chi svolge importanti ruoli pubblici è particolarmente esposto agli effetti di clamorosi annunci di inchieste giudiziarie, anche quando queste poi si rivelino prive di fondamento.
Questo è un problema che va affrontato in primo luogo fornendo strumenti e risorse adeguate alla macchina della giustizia.
Imporre ai tempi processuali dei termini rigidi, prescindendo dalle condizioni oggettive in cui i magistrati si trovano ad operare sarebbe come imporre ad un medico di curare la polmonite senza far uso di antibiotici.
Non solo i tempi della guarigione si allungherebbero invece che ridursi, ma peggiorerebbe di molto anche la salute del paziente.
Di questo argomento del processo breve tuttavia si è parlato solo quando il problema ha riguardato le cosiddette “alte cariche” e in seguito anche onorevoli e senatori.
Si tratta, è vero, di persone e ruoli molto esposti al pubblico giudizio, e spesso il solo fatto di essere stati oggetto di provvedimenti cautelari ne ha danneggiato se non stroncato l’attività politica e amministrativa.
E allora perché non dare una corsia privilegiata e più veloce ai processi in cui le alte cariche e i parlamentari dovessero trovarsi ad essere imputati?
Pare l’uovo di Colombo: l’indagato ha tutto l’interesse a vedere subito chiarita la sua posizione, senza dovere dare dimissioni preventive. Lo si potrebbe chiamare “processo subito”.
Non si comprende allora perché il PDL abbia definito una provocazione questa proposta avanzata dal PD alla Camera dei Deputati come emendamento al testo sul “legittimo impedimento” attualmente in discussione alla Camera.
Il testo va proprio nella direzione più volte auspicata dallo stesso PDL, mirando ad abbreviare i tempi della giustizia e di fare chiarezza sugli eventuali addebiti nei confronti dei politici coinvolti.
Se l’emendamento verrà bocciato in questa occasione noi del PD lo ripresenteremo come ddl autonomo o ancora come emendamento alla legge sul “giusto processo” il cui esame è stato rinviato a fine giugno.
Spero che questa proposta del PD verrà presa in considerazione poiché è giusto che chi è sfiorato dal sospetto, specie se persona pubblica, possa al più presto chiarire la propria posizione e presentarsi a fronte alta, se innocente, al cospetto della pubblica opinione.
Parallelamente è giusto sapere il prima possibile chi sono le persone che ci governano e ci amministrano, e la proposta del PD ha anche questo scopo di trasparenza nei confronti dei cittadini.

mercoledì 3 febbraio 2010

Dallo statuto dei lavoratori ai nuovi schiavi di Rosarno

La rivolta dei braccianti di Rosarno, che ricorda per diversi aspetti i moti dei braccianti agricoli contro lo sfruttamento dei latifondisti di molti decenni passati, sembra far tornare indietro l’orologio della storia.
Se circa un secolo fa i contadini erano assoggettati al potere del latifondo anche grazie alla repressione esercitata dal potere militare del Regno d’Italia, oggi sono le leggi volute dal governo di destra a negare ogni diritto ai braccianti clandestini, ridotti in semischiavitù e obbligati a lavorare in condizioni disumane sotto la minaccia della denuncia all’autorità costituita.
Ma la lotta dei braccianti di Rosarno non è dissimile da quella degli operai che salgono sui tetti delle fabbriche: in entrambi i casi vi è soprattutto la rivendicazione di diritti fondamentali, diritti che in Italia sono stati duramente conquistati (per tutti i lavoratori, è bene dirlo) e che, ultimamente, vengono messi in discussione e negati, troppo spesso nell’indifferenza generale.

La grande conquista della dignità del lavoro
Il prossimo 20 maggio lo Statuto dei Lavoratori compirà 40 anni. Esso fu il risultato di una strenua lotta politica e sociale che vide coinvolti nell’autunno del 1969 oltre sette milioni di lavoratori che si unirono per rivendicare i loro diritti.

Tra le numerose richieste avanzate dai lavoratori e recepite dallo Statuto, ricordiamo la riduzione dell'orario di lavoro a 40 ore settimanali, gli aumenti di stipendio e il diritto di assemblea. Grazie allo Statuto venne inoltre normato il controllo delle assenze per malattia o infortunio, si riconobbe il diritto a non essere discriminati se studenti lavoratori o sindacalisti, e si introdusse il principio dell’annullamento del licenziamento per giusta causa.

Lo Statuto dei Lavoratori rappresenta il raggiungimento di un alto grado di democrazia e il riconoscimento della dignità del lavoro, un importante traguardo che ha il suo diretto riflesso nell’alto grado di democrazia raggiunto dalla società italiana nel suo complesso. Un patrimonio di coscienza civile che nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro ha costituito il baluardo contro il quale si sono infranti la stagione delle stragi e del terrorismo, consentendo alla democrazia italiana di proseguire il suo cammino costituzionale.

Negli anni 80 e 90 lo Statuto ha mantenuto la forza di garanzia non soltanto dei lavoratori occupati, ma anche dei lavoratori disoccupati, con forme d'incentivazione dell'occupazione e di sostegno alla produzione che trovavano nello Statuto il preciso punto di riferimento, anche per quanto riguarda gli ammortizzatori sociali.

L’attacco all’articolo 18: dalla flessibilità alla precarietà
L’art.18 dello Statuto dei Lavoratori sancisce l’impossibilità per il datore di lavoro di licenziare un dipendente senza giusta causa ed è la chiave di volta del sistema.
Sono stati diversi, negli ultimi dieci anni, i tentativi di modificare o addirittura abolire l’art. 18 dello Statuto. Tali tentativi, portati avanti dalla destra, costituiscono un grave attentato all’integrità e all’efficacia dell’insieme delle garanzie dello Statuto stesso. Appare infatti evidente come diventi di fatto inutile il riconoscimento ai lavoratori del diritto di rivendicare il rispetto dell'orario di lavoro, delle mansioni, dei diritti sindacali, della libertà di opinione, di rivendicare il pagamento degli straordinari, e così via se si può essere licenziati senza giusta causa e senza poter avere la previsione della reintegrazione.

In altre parole, la paura di essere licenziati senza possibilità di reintegrazione rischierebbe di indurre i lavoratori a non esercitare pienamente i diritti che 60 anni di vita democratica e sindacale hanno loro garantito. La dignità, l'autostima, il diritto a manifestare le proprie opinioni e ad esercitare le proprie libertà, nell'ambito delle leggi che li regolano, sono valori non monetizzabili.
La dignità del lavoratore sul posto di lavoro è un presupposto fondamentale per la realizzazione piena del cittadino, è un diritto tutelato dalla nostra Costituzione, e non può essere accettato un risarcimento in sostituzione di questi valori.

Come diceva Piero Calamandrei nel 1955: “Dare lavoro a tutti, dare una giusta retribuzione a tutti, dare la scuola a tutti, dare a tutti gli uomini dignità di uomo. Soltanto quando questo sarà raggiunto, si potrà veramente dire che la formula contenuta nell’art. 1 “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”, questa formula corrisponderà alla realtà. Perché fino a che non c’è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e studiare e trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica, perché una democrazia in cui non ci sia questa eguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto una eguaglianza di diritto, è una democrazia puramente formale.

Si comprende quindi l’impegno con il quale i vari governi di destra si sono adoperati per rimettere in discussione l’art. 18, cercando di sopprimerlo o, almeno, di depotenziarne di molto la portata.

La grande risposta data dai lavoratori in occasione della manifestazione di Roma del 2002, quando risposero al richiamo della CGIL guidata da Sergio Cofferati gli ormai celebri 3 milioni di persone, ha potuto in qualche modo, allora, frenare i colpi portati all’art. 18 dalla destra al Governo.

E tuttavia già l’anno successivo l’introduzione della legge 30, la cosiddetta Legge Biagi, ha in qualche modo permesso la neutralizzazione dell’art. 18 per una larga parte di lavoratori introducendo tutta una serie di nuove casistiche lavorative che, se nelle intenzioni dichiarate dal Governo dovevano servire a facilitare l’accesso al mondo del lavoro soprattutto dei giovani, hanno di fatto permesso la trasformazione di ampi settori di lavoro stabile in aree di lavoro precarizzato.

Alla prevista flessibilità non ha fatto seguito una riforma sugli ammortizzatori sociali, tramutando di fatto una situazione di lavoro flessibile in una situazione precaria, e soprattutto non si è creato un contesto economico nel quale è facile e rapido il ricollocamento nel mondo del lavoro.

Circa gli effetti della legge 30, che secondo i suoi sostenitori avrebbe ridotto comunque la disoccupazione, si può osservare che il fenomeno è si diminuito in termini percentuali, ma al prezzo di un abbassamento della qualità delle retribuzioni. La possibilità di stipulare contratti anche di breve durata, ha introdotto inoltre una perturbazione nel calcolo dell’effettivo livello di disoccupazione, poiché le statistiche tengono conto solo dell’inizio del rapporto di lavoro, quindi è accaduto che il tasso di occupazione registrato fosse superiore rispetto a quello reale.

Dal punto di vista dei rapporti di forza tra offerta e domanda di lavoro, è chiaro che sono i datori di lavoro ad aver segnato un cospicuo vantaggio, mentre i lavoratori salariati hanno visto indeboliti i loro diritti e anche gli stessi lavoratori a tempo indeterminato si sono visti affiancare una “concorrenza” costituita da lavoratori precari ed interinali, molto meno costosi e molto più “flessibili”, tanto che si sono verificati casi in cui, all’opposto di quanto affermato da chi si dichiarava a favore della legge 30, si è iniziato a “dismettere” lavoratori stabili, magari più “anziani” e quindi più costosi, per assumere con le nuove forme contrattuali, giovani precari cui poter rinnovare praticamente all’infinito un contratto a progetto o co.co.co.

La flessibilità è stata pagata tutta dai lavoratori: un conto sarebbe stato infatti compensare la flessibilità richiesta al lavoratore con un cospicuo aumento salariale per unità di tempo della prestazione, analogamente a quanto avviene ad esempio per una prestazione professionale, ma altro è invece l’attuale sistema che fa costare assai meno al datore di lavoro un lavoratore flessibile rispetto ad uno stabile, potendo reiterare eventualmente all’infinito il rapporto.
E’ chiara la convenienza economica per il datore di lavoro a utilizzare forme di precariato, specie per impieghi poco professionalizzati.


Oltre il precariato, lo sfruttamento
Rosarno, Castelvolturno, ma anche Prato e chissà quali altri gironi infernali del lavoro nero e dello sfruttamento della mano d’opera a basso costo rappresentano in fondo l’ultima frontiera del precariato, e un’ulteriore riallineamento verso il basso dei parametri di remunerazione del lavoro di braccianti e operai.

Descrivere questi fenomeni considerandoli del tutto estranei ai circuiti dell’economia “ufficiale” è a mio avviso del tutto inesatto poiché è pur vero che l'impresa che opera nel sommerso, e il lavoratore in "nero", pur collocandosi in un segmento nascosto dell'economia, finiscono per entrare in contatto e interagire con l'economia "regolare" in molte occasioni. Dunque, l'economia sommersa nei paesi industrializzati finisce per convivere e per interagire a vari livelli con i meccanismi di mercato che governano il funzionamento del sistema economico.

Non si spiega altrimenti la scala raggiunta dal fenomeno, le migliaia di persone impiegate nell’agricoltura al sud, così come i tantissimi operai cinesi che lavorano clandestinamente nelle fabbriche sparse per l’Italia.

Se analizziamo questi fenomeni, abbiamo un quadro impressionante di cosa sia oggi l’economia sommersa italiana: un enorme buco nero che secondo le ultime stime della Banca d’Italia rappresenta oltre il 15% dell’attività economica.

Tutti i tentativi di far emergere il lavoro nero si sono rivelati, ad oggi, deludenti, tanto che il nostro paese vanta il poco invidiabile primato dell’Europa. Sono state emanate leggi che hanno avuto una scarsa adesione anche per la complessità dei meccanismi di emersione adottati, e nonostante spesso contenessero degli elementi di grande indulgenza verso coloro che avevano fatto uso di questo tipo di lavoro. I lavoratori in nero non vedono rispettati i loro diritti e devono accontentarsi del poco che riescono ad ottenere.

Il fenomeno dei clandestini introduce una variabile nuova, poiché siamo di fronte ad una massa di persone particolarmente deboli dal punto di vista della lingua, della conoscenza delle leggi e dei loro diritti. La loro situazione di irregolarità li mette inoltre in una condizione di completa sudditanza verso i loro sfruttatori, che hanno armi ancora più forti di ricatto.

La verità è che i clandestini servono perché rappresentano una forza lavoro a prezzi stracciati, più competitiva ancora del lavoro nero fornito dagli italiani e dagli immigrati “regolari”: essi sono dei senza diritti e possono quindi essere sottoposti ad angherie e soprusi ancora peggiori rispetto ai “semplici” lavoratori in nero. L’aver approvato la legge che introduce il reato di clandestinità rende ancora più evidente il suo vero scopo, ossia quello di mantenere serbatoi di lavoratori a basso costo.

Con questa ulteriore involuzione del mercato del lavoro, potremmo dire che il cerchio si chiude.

Alla fine degli anni ’60 le dure lotte dei lavoratori italiani hanno permesso il riconoscimento della dignità del lavoro e hanno portato l’ottenimento di uno degli Statuti più avanzati del mondo in termini di tutele dei diritti.

Oggi, potremmo ben dire che molto di quelle conquiste si è perso e la crisi economica, la globalizzazione, i tanti cambiamenti della nostra società non possono, io credo, interamente spiegare questo riflusso, questo ripiegamento dei diritti.

Su questo tema è venuto il momento di promuovere un vasto e rinnovato dibattito, che sia in grado di rimettere al centro valori quali la dignità del lavoro, i diritti (e i doveri) dei lavoratori, la flessibilità unita alle reti di protezione sociale, l’accoglienza e il riconoscimento del valore economico e sociale del lavoro degli immigrati, che può rivelarsi determinante, se opportunamente regolarizzato, per riequilibrare la progressiva decrescita demografica che avrà, se non opportunamente corretta, effetti devastanti sul welfare negli anni futuri.

lunedì 1 febbraio 2010

La Costituzione di Brunetta: distruzione o innovazione?

Piero Calamandrei (26 gennaio 1955): “Dare lavoro a tutti, dare una giusta retribuzione a tutti, dare la scuola a tutti, dare a tutti gli uomini dignità di uomo. Soltanto quando questo sarà raggiunto, si potrà veramente dire che la formula contenuta nell’art. 1 “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”, questa formula corrisponderà alla realtà. Perché fino a che non c’è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e studiare e trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica, perché una democrazia in cui non ci sia questa eguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto una eguaglianza di diritto, è una democrazia puramente formale. Non è una democrazia in cui tutti i cittadini siano veramente messi in grado di concorrere alla vita della società, di portare il loro migliore contributo, in cui tutte le forze spirituali di tutti i cittadini siano messe a contribuire a questo cammino, a questo progresso continuo di tutta la società; e allora voi capite da questo che la nostra Costituzione è in parte una realtà, ma soltanto in parte è una realtà; in parte è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno, un lavoro da compiere”.

don Giuseppe Dossetti (18 settembre 2004): “C’è una soglia che deve essere rispettata in modo assoluto. Oltrepasserebbe questa soglia qualunque modificazione che si volesse apportare ai diritti inviolabili civili, politici, sociali previsti dall’attuale Costituzione. E così pure va ripetuto per una qualunque soluzione che intaccasse il principio della divisione e dell’equilibrio dei poteri fondamentali,legislativo, esecutivo e giudiziario”.

Renato Brunetta (2 gennaio 2010): “Mi faccia dire una cosa che ancora non ho detto: la riforma non dovrà riguardare solo la seconda parte della Costituzione, ma anche la prima. A partire dall’articolo 1: stabilire che “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro” non significa assolutamente nulla”.

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