martedì 18 maggio 2010

Le parole del PD: Lavoro, valore fondante della nostra democrazia

Alcune riflessioni sul tema del lavoro, in vista dell'Assemblea Nazionale del Partito Democratico del 21-22 maggio.

L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. Così inizia il documento più importante dell’Italia Repubblicana, la nostra Costituzione.

Queste parole costituiscono la pietra angolare su cui poggia una visione di società che pone il lavoro al centro della costruzione di una repubblica democratica.

Il lavoro non è inteso qui solo come strumento dell’arricchimento individuale, ma come base ontologica dello Stato stesso e del benessere collettivo.

La Costituzione ne riconosce, ne tutela e ne indirizza il valore, ed in particolare:
· il valore economico (il lavoro inteso come mezzo di soddisfazione dei bisogni umani) negli articoli. da 35 a 40;
· il valore sociale (il lavoro inteso come ambito nel quale contribuire al bene comune e ottenere un riconoscimento sociale) nell’articolo 4, che sancisce il diritto/dovere al lavoro;
· il valore personale (inteso come spazio per la valorizzazione del talento individuale e per la realizzazione personale) ancora nell’articolo 4 che tutela le scelte del lavoratore e la sua elevazione formativa e professionale.

E’ attraverso il lavoro che si può concretizzare il patto sociale tra Stato e cittadini, e il benessere sociale diventa così una diretta conseguenza dell’interazione tra la buona amministrazione e lo sviluppo economico del Paese intero.

Il lavoro nella Costituzione è visto anche come strumento di realizzazione della personalità, e questo implica come sia dovuto ad ogni cittadino l’avere garantite pari opportunità di realizzazione in base alle proprie capacità e non grazie a posizioni sociali acquisite senza merito, costituenti perciò un privilegio.

Per questo il lavoro si configura come un diritto di tutti i cittadini, un diritto da rendere effettivo promuovendone le condizioni. Ma il lavoro è anche un dovere: il dovere che ogni cittadino ha di «svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società» (articolo 4).

Il lavoro riveste quindi una duplice valenza, individuale e collettiva, ed è il rapporto tra queste due dimensioni che caratterizza la società: il singolo realizza la propria dimensione civica anche attraverso il lavoro, che diventa mezzo di emancipazione e di promozione sociale resa possibile dalla rimozione di quei vincoli (di censo, di appartenenza sociale, di casta) che negano a tutti i cittadini pari opportunità.

Oggi assistiamo ad una perdita del senso etico del lavoro che non è più fattore di identità e socializzazione, ma un tempo carico di difficoltà e incertezze dove spesso ci si sente soli nell’affrontare i cambiamenti sempre più rapidi e convulsi imposti dal sistema economico detto “globalizzazione”.

Il problema è quindi ritrovare quel senso e riscoprire il valore dell’impegno affinché il lavoro sia di nuovo un luogo primario di crescita per le persone, una dimensione positiva che produce ricchezza individuale e sociale per costruire una nuova partecipazione e promuovere una vera esperienza di cittadinanza attiva.

Occorre capire in che modo restituire al lavoro, e ai lavoratori, quella centralità che la finanza globalizzata ha sottratto loro relegandoli, almeno in apparenza, a ruoli sempre più marginali, dando la scena alla speculazione borsistica piuttosto che ai risultati delle politiche industriali.

La delocalizzazione delle produzioni “di base” ha certo giocato un ruolo fondamentale in questa perdita di peso dell’economia da lavoro, tanto che oggi si parla della Cina come della nuova “fabbrica del mondo”.

Occorre oggi più che mai ripensare il ruolo socio-economico dell’Italia e dell’Europa, e occorre farlo avendo in mente il tipo di società in cui vogliamo vivere. Questo presuppone scelte politiche chiare e azioni efficaci in grado di realizzarle.

Non stupisce che il tema del lavoro sia “la” parola che si impone su tutte le altre, e giustamente Bersani afferma che “il lavoro è un tema collettivo mentre negli anni passati era diventato un fatto domestico".

E’ precisamente da questa osservazione che occorre partire nell’azione da sviluppare per “legare questioni sociali e democrazia”, come dice ancora il Segretario, e ricostruire la trama del tessuto sociale ormai così sfilacciata e resa consunta da anni di retorica liberista e individualista.

Il Censis, nell’ultimo rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese, registra “Il ciclo calante dell’individualismo fai da te”, mentre si fa strada una modalità nuova di intervento comune fra soggetti pubblici, privati e singoli individui, che rimanda a un modello comunitario in cui abbiano più spazio soluzioni personalizzate e il più possibile immediate.

In questa nuova prospettiva il PD ha grandi spazi di fronte a sé che vanno percorsi e interpretati per dare risposte concrete alle domande di futuro della società.


Non abbassare la guardia sui diritti dei lavoratori
I recenti attacchi all’art. 18 dimostrano come la destra continui a perseguire una accentuata deregulation del mercato del lavoro. Dopo l’eliminazione delle misure sulle dimissioni in bianco, le deroghe alle norme e l’indebolimento delle sanzioni sulla sicurezza sul lavoro, la rimozione dei limiti ai contratti a termine, il re-inserimento dei contratti a chiamata, la cancellazione della responsabilità in solido dell’appaltatore con il sub-appaltatore per arginare il lavoro nero, si è tentato nuovamente di smantellare le tutele contro gli ingiusti licenziamenti.
Usando una efficace espressione di Stefano Fassina, “per il ministro Sacconi, i diritti e la retribuzione dei lavoratori sono la variabile compensativa delle inefficienze di sistema e delle rendite corporative accuratamente difese.
Nonostante i tentativi di retorica riformista, è un disegno che guarda al passato più lontano per un mercato del lavoro selvaggio, senza diritti, diametralmente opposto a quanto servirebbe per spingere le nostre attività produttive verso la competizione di qualità.”

Il contratto di lavoro: diritti per tutti, precarietà per nessuno
Indubbiamente l’eccessiva segmentazione del mercato di lavoro, che vede una pletora di tipologie contrattuali, costituisce una anomalia che ha creato e crea disparità di trattamento del tutto ingiustificate tra lavoratori che pure esercitano mansioni analoghe. Quelle che dovevano essere forme di lavoro “flessibile”, giustificate da esigenze puramente temporali e stagionali, si sono trasformate in forme di precariato stabile, grazie alla reiterazione dei contratti che si succedono per mesi e per anni senza mai trasformarsi in contratti stabili. Il risultato è l’anomala crescita dei contratti “atipici” che hanno fortemente distorto il mercato del lavoro italiano e indebolito il sistema previdenziale.

Appare chiaro che è il rapporto di lavoro a tempo indeterminato che deve rappresentare, così come anche stabilito dalla stessa Unione europea, la “normale” forma di impiego. Perciò bisogna ridurre, contestualmente, le forme di lavoro flessibile tornando ai principi introdotti dal governo Prodi con il Protocollo del luglio 2007: cancellazione dello staff leasing, delimitazione del ricorso al lavoro a chiamata e specifiche causali per i contratti a termine.

Il lavoro flessibile dovrebbe inoltre costare molto più del lavoro stabile e il lavoro che da flessibile diventa stabile dovrebbe poter contare su forti incentivi, a differenza di quanto avviene oggi: in Italia costa più il lavoro “stabile” di quello precario, e la flessibilità la pagano i lavoratori, non le imprese che ne usufruiscono.

Quest’ultimo aspetto, in particolare, potrebbe essere la chiave di volta per disincentivare le aziende ad assumere con forme precarie quando più che alla flessibilità puntano al non dover stabilizzare i lavoratori. Così come una prestazione “unitaria” è pagata più di una prestazione “stabile” (si pensi al costo di un abbonamento rispetto al costo di un singolo acquisto) così dev’essere per la flessibilità, che va adeguatamente retribuita compensando il lavoratore con un pagamento orario pari almeno al doppio o al triplo di quello corrisposto al lavoratore “stabile”.

Questo meccanismo, più che un abbassamento verso il basso delle tutele, potrebbe contribuire a diminuire il ricorso delle aziende a forme di lavoro precario.

giovedì 13 maggio 2010

PROVINCIA: “TRENITALIA NON CHIUDA LA BIGLIETTERIA DI PEGLI” CHIEDE IL CONSIGLIO

Con un’espressione di opinioni di Stefano Volpara (Pd) con risposta dell’assessora Anna Dagnino e interventi anche di Sonia Zarino (Pd) e Paolo Bianchini (Pdl).

da Pro.No. Agenzia di Stampa della Provincia di Genova
Genova, 12 - La chiusura della biglietteria della stazione ferroviaria di Pegli “sarebbe l’ennesimo schiaffo ai cittadini e ai pendolari” ha detto Stefano Volpara (Pd) che ha portato il tema al Consiglio Provinciale con un’espressione di opinioni alla quale ha risposto l’assessora Anna Dagnino concludendo il dibattito in cui sono intervenuti anche Sonia Zarino (Pd) e Paolo Bianchini (Pdl).

Volpara ha chiesto di sapere se “sia vera la notizia dell’imminente chiusura della biglietteria di Pegli, si parla della fine di maggio, con una dismissione da parte di Trenitalia che rappresenterebbe un altro segnale di totale abbandono dei cittadini e dell’arroganza di chi gestisce un bene pubblico come il trasporto ferroviario interessandosi evidentemente solo delle linee veloci e non dei viaggiatori pendolari e se l’ultimo accordo tra Regione e Trenitalia prevedeva che non ci fosse nessuna chiusura di biglietterie perché i patti sottoscritti non vengono rispettati?”

Zarino ha ribadito “la preoccupazione sul territorio per questa notizia collegata a politiche di massimizzazione dei profitti e riduzione dei servizi di Trenitalia” e ha poi proposto “facciamo come in Veneto, dove delle piccole stazioni ferroviaria si occupano gli enti locali”.

Per Bianchini “mentre ci occupiamo della solita battaglia per cercare di difendere l’esistente, altrove si vivono esperienze di forte sviluppo dalle quali siamo tagliati fuori, come le nuove linee ferroviarie di un’impresa privata che proporrà da settembre servizi di altissimo livello tra Milano e Torino.”

L’assessora Dagnino scriverà “immediatamente all’assessore regionale Vesco e a Trenitalia perché resti aperta la stazione di Pegli, dopo le dismissioni purtroppo già avvenute a Prà, Voltri e Cogoleto. La Provincia inoltre contribuisce già a tenere aperte altre stazioni ferroviarie, come a Lavagna con un contributo al Comune per il punto informativo turistico gestito insieme alla biglietteria e lo stesso facciamo con la Pro Loco di Bogliasco.

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